Positivi non al virus ma al futuro. L’ottimismo di Massimo Nava

Negli anni Ottanta, ero stato incaricato dal mio giornale, il Corriere della Sera, di fare inchieste sul terremoto a Napoli. Il tassista che mi accompagnava in albergo, era un giovane padre di famiglia, amaramente ironico come sanno essere i napoletani. Teneva appesi allo specchietto retrovisore una quantità eccessiva di oggetti religiosi e portafortuna : un rosario, una collanina con il crocefisso, corna e cornetti, una medaglietta con la Madonna. Sul cruscotto, aderente con una calamita, l’immagine di San Gennaro, il Santo della città.

Le scoperte del ‘dopo terremoto’

Peppino, questo il suo nome, mi spiegò che in vita sua non era mai stato particolarmente devoto, ma che lo era diventato dopo il terremoto. Mi raccontò che, prima della tragedia che aveva devastato Napoli e la Campania, un funzionario del municipio, incaricato di ispezionare le abitazioni malsane e pericolanti del Pallonetto, uno dei quartieri più antichi e più poveri della città, gli aveva intimato lo sgombero della sua casa. “E’ troppo pericoloso vivere qui, i muri sono pieni di crepe, potrebbero crollare da un momento all’altro”, disse il funzionario. Il mio tassista, padre di quattro figli, non aveva soldi e non aveva nessuna possibilità di trasferirsi altrove. Così decise di disobbedire all’ordinanza e di correre il rischio di restare a casa sua.

Arrivò il terremoto e il municipio di Napoli dovette subito mettersi al lavoro per la ricostruzione dei quartieri più colpiti. Centinaia di case erano pericolanti e dovevano essere sgomberate. Un funzionario del municipio ispezionò una seconda volta l’abitazione del mio tassista. Controllò muri e crepe e concluse che sarebbe potuto rimanere a casa sua. “A me il terremoto m’aggiustato!!”, mi spiegò il tassista, convinto che, come per miracolo – forse una grazia di San Gennaro – il sisma avesse in qualche modo compresso le mura e chiuso le crepe anziché allargarle, facendo in modo che la casa restasse in piedi e fosse tutto sommato ancora sicura.

Se con un po’ di ironia applicassimo la teoria del mio tassista all’emergenza di queste settimane, potremmo anche noi conclude che il corona virus ci abbia “aggiustato”. Proviamo a pensare positivo e a riflettere sulle nuove condizioni politiche, economiche e sociali imposte dall’epidemia.

Terremoto Covid sull’Europa dei contabili

Quando mai, dopo anni di austerità imposta dall’Europa e di miserabili calcoli decimali sull’aumento del Pil e sui tagli della spesa pubblica, avremmo visto piovere tanti soldi sul Paese e mobilitare in un’Europa più coesa e solidale una mole così eccezionale di risorse finanziarie? In poche settimane, abbiamo messo in soffitta il Patto di Stabilità e convinto persino la Germania a indebitarsi. E’ vero, sono centinaia di miliardi che serviranno soprattutto a riparare i danni, ma assicureranno anche la ripartenza e, se saranno impiegati bene, anche un modello di sviluppo più ecologico, più solidale, più sostenibile, più moderno, partendo dalla prevenzione delle emergenze (i cui limiti sono stati così drammaticamente messi in evidenza) e da una presa di coscienza collettiva delle possibili cause collaterali della diffusione del virus, dall’inquinamento atmosferico alla congestione delle aree urbane.

Lo slogan “andrà tutto bene”, era niente più che un incoraggiamento, ma l’affermazione “nulla sarà come prima” potrebbe essere un monito, un impegno etico e politico, per provare finalmente a cambiare comportamenti e decisioni nella direzione che da anni ci indichiamo e ci raccontiamo soltanto a parole, continuando a mischiare la plastica con la carta.

Nulla sarà più come prima

Il Covid 19 ha imposto all’umanità una diversa percezione del rischio, dei limiti del pianeta, del senso della nostra esistenza. Nemmeno il più fervente militante ecologista avrebbe temuto per la propria vita pur nella consapevolezza dello scioglimento dei ghiacci e dell’innalzamento dei mari, ma ogni cittadino ha oggi una maggiore consapevolezza delle conseguenze che possono avere sulla sua vita, qui e ora, la mancanza di igiene, il traffico, lo spreco di risorse, i tagli della spesa pubblica, la globalizzazione, una falsa gerarchia di bisogni e priorità che ci ha fatto perdere di vista esigenze primarie e beni materiali e immateriali per niente scontati.

Il corona virus ha dato una scossa anche alla politica, al modo di farla e al modo di viverla, come cittadini, come elettori, come spettatori.

Vivevamo in un Paese incattivito e rancoroso, tendenzialmente un po’ razzista, scettico verso l’Europa, una somma di individualismi ed egoismi, avvelenato da una politica strillata e piena di odio.

Ci siamo svegliati in un Paese più coeso e solidale, persino disciplinato, che ha dato straordinarie prove di sacrificio e coraggio, che ha riscoperto i valori della famiglia, dell’amicizia, dei rapporti all’interno di piccole e grandi comunità. Un Paese che ha compreso la necessità di regolarizzare decine di migliaia di migranti perché altrimenti  non  avrà in autunno frutta e verdura. Un Paese che ha cantato alle finestre e che ha pianto i morti. Insieme.

La scoperta che lo Stato c’è e i cittadini anche

Sapevamo di vivere in uno Stato disorganizzato, slabbrato in tante funzioni, impreparato all’emergenza. Eppure le strutture pubbliche hanno retto. Medici, infermieri, forze dell’ordine, funzionari, insegnanti – ciascuno nel suo ruolo – hanno fatto la propria parte, spesso con una dedizione e un impegno eroici. E non si può negare – senza assolvere errori e improvvisazione – che anche la politica abbia fatto la propria parte, come nessuno si sarebbe aspettato se solo si ricordassero tempi e temi che sembrano oggi lontani anni luce:

i selfie di Salvini al Papeete Beach, le campagne grilline contro i vaccini, le risse per la leadership nel PD, le feste sexy di Berlusconi, oggi calatosi nei panni del saggio padre della patria e di una destra finalmente liberale, moderna, europeista.

L’emergenza ha anche messo al primo posto tutto ciò che per anni, se non per decenni, era argomento di dibattiti accademici, di convegni includenti, di promesse mai mantenute : il cambio di passo della burocrazia, l’assoluta urgenza di sapere spendere bene e in fretta i soldi che ci sono e quelli che arriveranno, l’urgenza di innovazione tecnologica del sistema Paese e di  investimenti in sanità, scuola, patrimonio edilizio, infrastrutture, smart working, cultura, turismo, ricerca. L’Italia ha competenze, risorse intellettuali, energie per risorgere. Nelle piazze deserte, il corona virus ci ha fatto anche riscoprire la nostra immensa bellezza, talvolta ferita e trascurata.

L’esempio del dopo ponte Morandi a Genova

E’ sicuro che saremo un Paese più indebitato, anche se in buona compagnia in Europa. Ma è possibile che il debito non pesi più di tanto sulle prossime generazioni se appunto la ripartenza avverrà all’insegna del “niente sarà come prima”. L’esempio più emblematico degli ultimi mesi di storia italiana è stato il Ponte Morandi a Genova: un disastro annunciato, una tragedia che ha messo a nudo incuria, corruzione, mancanza di controlli, arretratezza. Ma il Ponte, con un’ immediata mobilitazione di risorse e un sano decisionismo politico è stato ricostruito a tempo record e sarà il simbolo di una città che rinasce e di un Paese che sa guardare al futuro.

Staremo ancora un po’ a casa e piangeremo i nostri morti. Ma tutti noi, come il mio tassista napoletano, dobbiamo sperare che il Covid 19 “ci abbia aggiustato.” Dopo l’11 settembre, abbiamo detto “siamo tutti americani”. Oggi proviamo a dire “siamo tutti positivi”.

Tags: futuro Nava
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