Fino a quando resisteremo? Massimo Nava

Per le epidemie di epoche passate, le decisioni delle autorità e le indicazioni degli esperti non erano accolte con la disciplina di oggi. C’erano sommosse, nascevano leggende metropolitane più pericolose delle fake news, si dava la caccia all’untore e qualche medico moriva dopo atroci torture, come racconta Manzoni ne “La colonna infame”.

Senza bisogno di repressione poliziesca, le popolazioni ha accettato di chiudersi in casa, le denunce per violazione del lockdown sono relativamente poche. Qualche giurista solleva dubbi di costituzionalità, ma è difficile sostenere che l’emergenza sanitaria sia entrata in conflitto con principi democratici. Da settimane, diamo fiducia alla scienza, anche se proprio virologi ed esperti hanno dato un poco edificante spettacolo di esibizionismo televisivo sparlandosi addosso: si sono contraddetti, mentre inseguono annunci di nuovi vaccini.

Ieri la politica ha delegato la responsabilità delle decisioni alla scienza, oggi la sta delegando alla task force di tecnici e scienziati guidati da un manager. Domani, con il Pil sotto di quindici punti, chi sarà il taumaturgo?

Stefano Folli, su Repubblica, paragona il baratro economico e la confusione politica che ci attendono alla crisi francese dopo la guerra d’Algeria. Nel 1958, la Francia allo sbando invocò il ritorno del generale De Gaulle. La Repubblica presidenziale non sospese la democrazia. (Per la storia, l’uomo che riuscì a fare sedere la Francia al tavolo dei vincitori del conflitto mondiale perse un referendum sulla riforma costituzionale).

 In Italia chi sarà (se mai ci sarà) l’uomo della Provvidenza? Il gossip di palazzo reitera il nome di Mario Dragi, magari in accoppiata con la nuova star giornalistica, il capo della task force Vittorio Colao, già dato suo malgrado per futuro ministro. Ma intanto c’è una maggioranza fragilissima, un partito (il M5S) devastato da incompetenze e fronde, un dibattito surreale attorno al MES e all’Europa, un’opposizione che sembra non aspettare altro che di riprendersi la scena, a qualsiasi prezzo.

Una cosa è il diritto di critica, colpendo nel segno le incertezze del governo, in particolare sull’effettiva efficacia delle misure economiche fin qui adottate. Un’altra è spingere l’Italia a un isolamento suicida in Europa.

Nella cacofonia della politica, è lecito chiedersi fino a che punto saremo disponibili a sopportare il lockdown? Con il supporto degli esperti, potremo giungere a una ragione percezione del rischio? Potremo insomma rischiare di vivere, più o meno come quando decidiamo di prendere un aereo, metterci in auto in autostrada, passeggiare di notte, fare una nuotata al largo, camminare in alta montagna, fumare qualche sigaretta?

Non è solo questione di ora d’aria dei bambini o di incontri fra fidanzati, o di attività fisica, ma di resistenza di famiglie che non sanno come arrivare alla fine del mese, di quanti vedono andare in fumo risparmi, commerci, attività; di ricadute psicosociali sulla collettività.

E qual’è il punto di ragionevole equilibrio fra il principio etico della salvaguardia della salute e le devastanti conseguenze sull’economia? Non è solo questione di potenza del “bazooka” finanziario che Paesi e istituzioni internazionali promettono, ma di valutare la soglia di rottura : oltre questa, i tempi di una ripresa potrebbero comprendere una generazione. La fragilità non riguarderà soltanto i mercati finanziari allo sbando, ma anche il tessuto politico e sociale. Oggi la politica ha delegato la gestione della salute e dei comportamenti alla scienza, ma prima o poi dovrà riappropriarsi di responsabilità più generali, con uno sguardo lungimirante sul prezzo che stiamo pagando.

L’emergenza ha imposto un’eccezionale mobilitazione di risorse, ma ha accentuato – a seconda dei Paesi colpiti – la fragilità dei sistemi di sicurezza sociale e sanità pubblica (in primo luogo negli Stati Uniti) e le divisioni fra europei, quando era lecito attendersi un’eccezionale reazione solidale e immediata. L’Ungheria ha sospeso la democrazia. In pratica, oggi in Europa non circolano nè cittadini nè merci, se è vero che in Germania scarseggia la pasta e non arrivano componenti italiani per le fabbriche di auto. Il coronavirus ha riprodotto la cacofonia a proposito di altre problematiche, come il controllo delle frontiere esterne, i flussi migratori, i rapporti economici con Russia e Cina.

Soglia di sopportazione e condizioni per la ripresa si riassumono nella domanda posta all’inizio. Possiamo cominciare a valutare costi e benefici del lockdown? Non si tratta di scomodare il cinismo di Stalin (un morto è una tragedia, un milione di morti sono una statistica), ma di ragionare sui danni collaterali, sull’ effettiva efficacia della clausura (tanto più che è forte il rischio di contagio di ritorno in autunno), su numero reale di decessi in rapporto agli anni precedenti, alle patologie già presenti nelle vittime, alle morti che si sarebbero evitate senza colpevoli e/o irresponsabili comportamenti in alcuni ospedali e case di riposo.

Queste considerazioni non sono quasi mai entrate nella comunicazione ufficiale e in quella riportata sui media. La comunicazione è stata acritica e ansiogena, quasi che rafforzando preoccupazioni e paure fosse più facile ottenere consenso e disciplina. Ma fino a quando?

Oggi, registriamo caduta verticale di rapine, riduzione dell’inquinamento atmosferico, ritorno di cerbiatti e volpi  nelle piazze deserte, tasso di incidenti stradali vicino allo zero, assenza ovvia di “stragi del sabato sera”, il che offrirà alle statistiche un maggior numero di giovani vivi. Non per questo apriremo le prigioni e terremo a lungo chiuse le fabbriche di automobili o trasformeremo le autostrade in piste ciclabili. Facciamo il possibile perché il rimedio non sia peggiore del male.

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