
Pasqua 1945 fu il 1° aprile, col mondo ancora in guerra: l’Europa era sommersa dalle rovine e nel Pacifico cominciava l’operazione “Iceberg”, ovvero lo sbarco sull’isola di Okinawa. Anche nelle Filippine continuava l’avanzata americana, ma i giapponesi si ritiravano combattendo duramente fino all’ultimo. La guerra da settimane imperversava anche sul suolo tedesco: americani e inglesi da ovest e russi da est puntavano ora direttamente al cuore della Germania. In Italia la valle del Po era ancora occupata dai tedeschi, ma gli alleati si stavano preparando a scendere dalla cresta dell’Appennino. Non erano solo le operazioni militari a rendere concitato e febbrile ovunque quel mese di aprile di settantacinque anni fa, perché la popolazione civile era ancora martoriata ogni giorno e – benché si intravvedesse una fine imminente – una data precisa rimaneva in ogni caso incerta. Il 12 aprile fu annunciata la morte di Roosevelt e, sia pure per un attimo, si aggiunsero così altre incertezze.
Mentre erano liberati alcuni dei campi di concentramento più famigerati e cessava l’incubo dei prigionieri, altrove si consumavano però gli ultimi massacri. Soldati americani entrarono il 4 aprile nel ‘campo di lavoro’ di Ohrdruf, in Turingia, e per la prima volta gli alleati occidentali videro – seppure in scala minore – quanto avevano già visto i russi ad Auschwitz un paio di mesi prima; una seconda conferma della tragedia consumata dietro il filo spinato dei campi di sterminio si ebbe il 10 aprile, quando furono liberata anche Buchenwald e Bergen-Belsen il giorno 15. Ovunque i nazisti tentarono di fare sparire le tracce dei crimini distruggendo baracche, camere a gas e forni crematori o più semplicemente eliminando i testimoni: il 14 aprile a Gardelegen, in Sassonia, poche ore prima dell’arrivo delle avanguardie alleate più di mille prigionieri del locale campo furono eliminati in maniera barbara. Pochi giorni dopo – inaugurando una prassi che sarebbe continuata anche altrove – gli americani costrinsero la popolazione civile tedesca a recuperare e seppellire i corpi dei prigionieri uccisi.
Per sfuggire agli ultimi combattimenti o nel timore dei nuovi occupanti sulle strade si erano riversati milioni di profughi la cui fuga, ad esempio dalla Prussia orientale, era iniziata settimane prima. Se in Europa erano cessati i massicci bombardamenti aerei che avevano provocato la morte di centinaia di migliaia di civili, essi non cessarono però in Estremo Oriente. Uno dei più tremendi bombardamenti di Tokio – effettuato con armi incendiarie – avvenne infatti il 14 aprile, ultimo di una serie che aveva già causato la morte di circa ottantamila persone solo in quella città. Traendo bilanci conclusivi resta però sempre difficile stimare una qualsiasi cifra, che – per quanto spaventosa – non esprimerà l’orrore della situazione: sono noti infatti gli episodi più eclatanti, ma ancora oggi poco si sa ad esempio di quanti perirono per malattie o per fame dispersi in uno scenario di guerra. A Berlino ad esempio, privi di cure o medicine, in poche ore perirono tutti i ricoverati negli ospedali.
Le operazioni alleate in Italia erano iniziate il 6 aprile e già intorno al 19 le avanguardie scese dagli Appennini lambivano la pianura: per raggiungere l’obiettivo principale fissato a Verona la prima città liberata fu Bologna il 24, ma in realtà i partigiani ne avevano assunto il controllo almeno un giorno prima degli alleati. Ai tedeschi e ai gerarchi di Salò non restava che la fuga disordinata verso nord, nella grottesca illusione di una resistenza sulle Alpi. La situazione era però già crollata in quelle ore, mentre si ignorava poi che la resa delle truppe tedesche nel Nord Italia era già stata negoziata nella neutrale Svizzera: numerosi presidi, semplicemente circondati, dovettero cedere le armi. Il 25 aprile, il giorno dell’incontro tra russi e americani sul fiume Elba, la resa delle truppe tedesche il giorno prima a Genova nelle mani dei partigiani, finalmente la Liberazione, anche se in numerosi luoghi si continuava a combattere.