
“Boris che sognava l’Impero e fu piegato dal virus”, avevo scritto qualche giorno fa, e parlavo naturalmente della sconfitta politica inflitta dalla pandemia all’uomo che aveva tentato di negarla. Non potevo immaginare, nessuno immaginava, che la lotta si sarebbe fatta così drammaticamente personale, che nella battaglia il premier inglese avrebbe rischiato, ben oltre le sue discutibili ricette, la sua stessa vita. Non si conoscono con precisione le sue condizioni, l’annuncio del ricovero in terapia intensiva escludeva al momento la ventilazione forzata . E questa sembra essere ancora la situazione, se le informazioni diffuse da Downing Street corrispondono al vero: perché mai come in questa circostanza il livello di trasparenza adottato dal governo britannico appare non molto superiore a quello del Politburo cinese.
Di certo un uomo che si è sempre volutamente presentato, come conviene a ogni leader populista, nella dimensione della commedia – ridanciano, eccentrico, strafottente – oggi viene sfiorato dall’ombra cupa della tragedia. Forza Boris, resisti, è la sola cosa che ora tutti debbono augurargli, anche quelli che non lo amano.
Resta il fatto che nella corsia di terapia intensiva del St Thomas’ Hospital la parabola esistenziale e politica del premier finiscono col sovrapporsi drammaticamente. La malattia che lo colpisce così duramente assume i connotati fatali della nemesi. Tutti ricordano la leggerezza, al limite della fatuità, dei suoi atteggiamenti e delle sue decisioni ai primi segni dell’incipiente pandemia. Ancora il 3 marzo Boris andava in giro a stringere mani, vantandosene, come se la spavalderia lo rendesse immune al virus. E appena dieci giorni dopo se ne usciva con le dichiarazioni più sventate nella storia di questa catastrofe, quelle con cui invitava i britannici, in nome della presunta “immunità di gregge”, a prepararsi “a dire addio anzitempo a molti dei loro cari”. Infine il cambio di rotta, quando ha capito che il numero dei “cari estinti” anzitempo minacciava di travolgere non solo un’intera generazione ma anche la sua carriera politica. E tuttavia anche il “lockdown”, nella versione johnsoniana, è apparso ondivago, poco convinto, più un éscamotage della comunicazione che una strategia sanitaria e politica.
Non è solo per i suoi limiti caratteriali , o per gli aspetti più bizzarri e anarcoidi della sua personalità, che Boris trovava indigesta la scelta di chiudere il regno. Per lui, cantore del liberismo estremo, ogni intervento dello Stato nella vita degli individui, anche in situazioni di estrema emergenza come l’attuale, rischia di assumere le forme di un’insopportabile invadenza. C’era insomma un’insuperabile diffidenza ideologica nella riluttanza a imporre limiti, divieti, chiusure, offrendo in cambio la mano salvifica dello Stato alle imprese spinte, di necessità, ai limiti del fallimento. Su questo crinale decisivo per il futuro del Regno, Johnson ha probabilmente avvertito il rischio che il cartello di carte da lui costruito attorno al mito della Brexit gli crollasse rovinosamente addosso. Perché qual è il pilastro della scelta isolazionista di abbandonare l’Europa?
L’idea che una Gran Bretagna sciolta dalle “pastoie di Bruxelles” possa recuperare gli antichi rapporti imperiali , sostituendo all’ormai impossibile relazione metropoli-colonie la prospettiva fantasiosa della Global Britain: Londra e la City, già centro finanziario del pianeta, trasformate -una volta libere dei vincoli europei- nel cuore pulsante di una futuribile rete planetaria di terziario avanzato, al servizio del vorticoso incremento della ricchezza di carta.
Il catastrofico irrompere della pandemia ha svelato in un batter di ciglia l’inconsistenza del progetto. Il blocco dell’economia reale rischia oggi di allontanare la Brexit in un futuro indistinto, e di far assomigliare lo sbandierato decisionismo di Johnson a un bluff pagato a caro prezzo dagli inglesi. C’è di peggio. Nell’infuriare della pestilenza, la penuria dei dispositivi di protezione – anche i più elementari (mascherine e guanti)-, le carenze di ventilatori e letti di terapia intensiva: l’evidenza brutale del virus non solo ha portato in primo piano la “fisicità” del nostro essere sociale ma soprattutto ha indicato in modo perentorio che la prima ricchezza di uno Stato è la salute dei suoi cittadini. Dandola per scontata molti, in Occidente se n’erano dimenticati, chi più chi meno. Il governo di Boris Johnson certamente tra quelli di più. Per questo il suo k.o. sanitario -speriamo breve e passeggero- diventa anche il simbolo del fallimento della sua politica.
E’ come se, in un’epifania da tragedia greca, il Fato si vendicasse dello hubristès, il superuomo arrogante che disdegna l’aiuto di Zeus e ne sollecita la collera. Giove, qui, è il principio di realtà, e il miglior augurio possibile per Boris Johnson è che esca dalla malattia avendolo finalmente imparato.