
Così Tucidide, nella “Guerra del Peloponneso” (libro II, 47-55) comincia la descrizione degli eventi che si verificarono ad Atene tra il 430 e il 427 a.C., quando la popolazione della città, già in guerra contro un’alleanza di altre città greche capeggiata da Sparta, fu decimata da una pestilenza terribile e della quale lo storico descrisse accuratamente alcuni sintomi: febbre ardente, arrossamenti e bruciori agli occhi, tosse spasmodica fino alle convulsioni che nell’arco di una decina di giorni conducevano penosamente alla fine. Tucidide fu tuttavia fortunato perché guarì, ma, prima di parlare della sua malattia, scrisse che lo faceva perché altri, qualora si fosse ripresentata, potessero riconoscerla ed evitarne se possibile le catastrofiche conseguenze. Numerosi altri, come ad esempio il poeta latino Lucrezio in “De rerum natura” o lo storico greco Plutarco, descrissero gli stessi sintomi, ma il primo in assoluto resta comunque lo storico greco che per secoli rappresentò una fonte nella storia della medicina.
Nonostante siano trascorsi ben venticinque secoli dai fatti narrati, il racconto di Tucidide della peste di Atene ricompare oggi con grande frequenza sulle pagine dei quotidiani e nella rete. A parte gli evidenti richiami contingenti legati all’attuale situazione, cioè alla nostra cronaca quotidiana, nel racconto di Tucidide c’è però qualcosa di più, perché descrive non solo i dolorosi effetti sui singoli ammalati, ma anche lo stato d’animo della città durante l’epidemia. «Il morbo – scrive esattamente – dette l’inizio a numerose infrazioni delle leggi»: azioni sfrenate o spregiudicate, per il desiderio di ricchezza o di piacere personale, furono commesse da molti, certi di non incorrere più nelle punizioni o nei castighi, né umani né divini. Accadde anche che molti destini mutarono all’improvviso, come nel caso dei parenti poveri che si trovarono ad ereditare ingenti patrimoni da parenti ricchi che mai avevano frequentato o appena conoscevano. Gli eredi però dissiparono in poco tempo il patrimonio, mentre altri ancora divennero prodighi perché giudicavano effimera la vita ed incerto il futuro. All’opposto, altri ancora, che sino a quel momento si era impegnati seriamente per ottenere attraverso il lavoro e la rettitudine quello a cui aspiravano, abbandonavano tutto e si misero ad attendere la malattia in uno stato di inerzia o di incoscienza. Al di là della religione o della morale, i comportamenti dei cittadini di Atene insomma cambiarono profondamente.
Più avanti Tucidide parla anche del modo di esprimersi degli uomini – o meglio dei cittadini – che si trasformò soprattutto quando la guerra non fu più combattuta solo tra città diverse, ma spesso all’interno delle stesse mura: quello che in precedenza sarebbe stato definito un tradimento o un disonorevole atto di codardia, durante il conflitto diventato ‘guerra civile’, fu allora chiamato in tutt’altro modo e anche «le parole cambiarono significato» (libro III, 82). Il corpo, il linguaggio e le storie degli uomini furono descritte dallo storico con grande lucidità e spietata cura anche nei minimi particolari, ma principalmente escludendo interventi soprannaturali e cercando invece nei comportamenti dell’uomo l’origine di quanto stava accadendo. Nello stesso periodo l’osservazione e la registrazione dei dettagli stava diventando del resto il fondamento della nuova scienza medica che stava nascendo grazie al medico Ippocrate (460 a.C.-377 a.C.) che in tal modo elaborava delle storie precise del paziente, inteso come persona e non malattia. I ‘segni’ (in greco antico ‘semeion’) diventarono gli elementi da ricercare ed appurare e lo stesso fece anche Tucidide nella sua ricerca storica confrontando le testimonianze dei protagonisti o inserendo documenti nella narrazione. Dalla cultura delle città greche del V secolo a.C. si stava sviluppando una lunga evoluzione del sapere giunta fino a noi, ma soprattutto ci si stava anche rendendo conto di una profonda trasformazione in atto.