‘Smart working’, lavoro intelligente per chi? Crisi e differenze di classe

L’impressione che la celebrazione dello smart working, come trampolino verso un futuro radioso, fosse quantomeno inopportuna è stata strisciante dai primi giorni della quarantena. Poi è diventata quasi una fastidiosa certezza.

L’avvenire per chi già lo aveva

Come per lo smart working, anche il futuro pare riservato a chi un avvenire già ce lo aveva, prima dell’epidemia. Siamo chiari, la situazione attuale non ha nulla, neanche in prospettiva, di innovativo. La crisi determinata dall’emergenza sanitaria non fa che replicare, esasperandolo, il modello  esistente costruito da decenni sulla base di profonde disuguaglianze.

Lavoro privilegiato

La possibilità di lavorare da casa non è una soluzione per il post-epidemia, ma una contromisura adottata nel corso della crisi, che non fa che fotografare una situazione pregressa. Il cosiddetto lavoro agile può avere luogo solo in presenza di alcune condizioni preliminari che già esistevano prima dell’epidemia. Su tutte, avere un lavoro retribuito e poterlo esercitare da casa. In questo caso, lo smart working è davvero un’ottima scelta: si lavora da casa e si percepisce uno stipendio, azzerando quasi totalmente il rischio di essere contagiati. Non c’è nulla di innovativo o di rivoluzionario se non per chi, già in possesso delle condizioni di cui sopra, potrà in futuro reiterare quella che altro non è che una variazione sul tema. E’ una colpa? No. Un merito? Neanche. Come tutte le soluzioni applicabili solo a una porzione ridotta della popolazione è un privilegio. E in quanto tale esclude chi già ne era escluso per estrazione.

Quelli della ‘scelta costretta’

Mentre, dunque, un privilegio viene presentato come cardine di un nuovo modello di società, molto spesso da chi teorizza la fine del concetto di lavoro, milioni di lavoratori, spesso poco qualificati, si ritrovano in una condizione che da sempre caratterizza le loro vite: quella di dover fare una scelta senza poter scegliere davvero.

Lavoro o salute oltre l’ex Ilva

Il “merito” dell’epidemia da coronavirus è quello di aver esteso il dilemma di Taranto a tutto il paese. A forza di ignorare i sacrificabili della città pugliese, ora tutti coloro che non possono lavorare da casa, devono fare i conti con la scelta tra lavoro e salute. Per loro, già in crisi di liquidità prima dell’epidemia, già indebitati prima della quarantena, già sotto la soglia di povertà prima del contagio, per loro, i sacrificabili, il lavoro è vivo e vegeto, sono solo peggiorate le condizioni nelle quali lo si esercita. E sono anche fortunati questi lavoratori poveri, perché sono tanti quelli che il lavoro l’hanno già perso e non possono neanche scegliere tra restare a casa e morire di fame o andare a prendersi il virus in un supermercato, in un’ambulanza o consegnando una pizza ai tanti smart workers.

In attesa di futuro il sopravvivere

Per i sacrificabili non c’è futuro da immaginare. C’è un presente al quale stare attaccati disperatamente sperando di sopravvivere. La resilienza, questo termine abusato e ormai vuoto che spesso piace a chi ha solo il proprio ego da curare, significa poco per i sacrificabili. Sarebbe più opportuno parlare di resistenza, quella che, senza aver potuto scegliere, conoscono e continueranno a esercitare anche dopo la crisi, se sopravviveranno.

Passato riverniciato di fresco

E allora suona vuoto e farsesco, sentir parlare di un futuro da immaginare, di tragitti nuovi da percorrere, senza decenza, rispettando ruoli preordinati, senza che nessuno si assuma mai una piccola porzione di responsabilità. La parcellizzazione del discorso, l’atomizzazione della frase, il sacrificio del senso sull’altare del suono, altro non sono che il riflesso malato di una società individualista ed edonista che trova nell’autopromozione, la sua massima espressione, nell’inutilità la sua più grande funzione.  Non c’è nessuna visione globale e unitaria di paese. Solo un gigantesco e scomposto esercizio di onanismo compiaciuto e impudico delle élite. Quello che è spacciato come radioso futuro, altro non è che un passato riverniciato di fresco dalla crisi, la testa di ponte, in alcuni casi inconsapevole, di un liberismo innestato su una socialdemocrazia con gli occhi iniettati di mercato che in questi anni ha distrutto lo stato sociale e la sanità pubblica nello specifico. Quelli che parlano di post-ideologia e di nuove soluzioni sono talvolta gli stessi che le ideologie le hanno ammazzate a coltellate perché mal si adattavano all’unica possibile, quella del mercato.

Più poveri, indebitati, peggio pagati

Alla fine della fase più acuta della crisi, i lavoratori poveri, i sopravvissuti, si ritroveranno soltanto più indebitati e nell’impossibilità di rifiutare, complice il “grave momento economico”, condizioni di lavoro ancora più dure. Come al solito se il futuro sarà bellissimo, sarà per pochi, gli stessi che avranno partorito l’ennesimo remake del sistema che li vede sulla sommità. Non è necessariamente una colpa, ma un privilegio non può che replicarsi nell’ambiente in cui è nato, e non ha nulla a che fare con  un diritto.

Però, mentre si immagina il futuro, lasciando agli altri, esclusi dal dibattito, il compito eterno di salvarsi e salvare il presente, a loro, ai sacrificabili, si diano almeno le briciole, magari delle brioches, come diceva qualcuno.  

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