Guerra batteriologica: storia tra orrori e menzogne

Deuteronomio, libro della Bibbia all’incirca del 1200 a.C. raccomanda di non avvelenare i pozzi o le sorgenti durante le guerre. La malattia o la sete per uccidere il nemico. Nel XX secolo, la ricerca più avanzata al servizio della guerra, e il progresso scientifico che aveva sconfitto molte malattie, offrì anche -in alcuni casi-  il modo di procurarle.

La malattia al servizio della guerra

Anche la storia della guerra batteriologica, come quella della guerra in generale, affonda le sue radici in un passato assai remoto: sebbene non si conoscano episodi precisi e dettagli relativi a questo periodo, basti ricordare che già il Deuteronomio – un libro della Bibbia che risale all’incirca al 1200 a.C. – raccomanda espressamente di non avvelenare i pozzi o le sorgenti durante le guerre. Si tratta della conferma indiretta di una pratica controversa e condannata, quanto evidentemente di uso abbastanza corrente. Il sogno insomma di sconfiggere il nemico procurandogli una malattia mortale è dunque altrettanto vecchio come le prime testimonianze dell’attività bellica e prosegue attraverso l’antichità classica fino al Medioevo, quando ad esempio si suggeriva, in caso di assedio, di gettare nelle cisterne del nemico cadaveri di appestati o parti di essi. L’evoluzione che seguì ebbe una brusca accelerazione nel XX secolo, quando la ricerca più avanzata si mise al servizio della guerra: paradossalmente quindi lo stesso progresso scientifico che aveva sconfitto molte malattie, offrì anche il modo di procurarle.

Unità 731

Alcuni tra i peggiori orrori mai commessi con armi batteriologiche avvennero in Cina, tra il 1937 e il 1945, durante l’occupazione giapponese. Per assoggettare l’Asia al dominio imperiale nipponico, fu previsto anche il ricorso ad armi chimiche e batteriologiche, e a un gruppo di  militari e scienziati fu chiesto di fare cosa che nessuno aveva mai tentato fino a quel momento. Poiché l’impiego delle armi batteriologiche era comunque soggetto ad un certo margine di incertezza – sia dal punto di vista delle conseguenze sui colpiti, sia da quello della sicurezza per chi le impiegava – si decise la creazione di un grande centro di sperimentazione (Unità 731) in una remota località del nord della Cina, a circa un centinaio di chilometri dalla città di Harbin. Nei laboratori del campo di Ping Fang, dove lavoravano centinaia di ‘ricercatori’, furono condotti esperimenti su ‘soggetti umani’, popolazione civile cinese o prigionieri di guerra mongoli, coreani, russi ed anche inglesi o americani. Il settore di maggior interesse fu appunto lo studio della diffusione di malattie quali il colera, il tifo, la peste o il vaiolo su esseri viventi per mezzo di esperimenti condotti con una ferocia senza aggettivi. 

Altre ricerche

Alla fine della guerra mondiale, dopo l’occupazione della Manciuria da parte dei sovietici, ci fu un processo per crimini di guerra, ma – poiché nel frattempo i principali responsabili erano fuggiti – furono condannate solo figure di secondo piano. In realtà molti dei cosiddetti ‘scienziati’ di Ping Fang furono catturati e rimessi al lavoro in altri laboratori altrettanto segreti. La ‘guerra fredda’ fece il resto e – con metodologie molto meno inumane – le ricerche continuarono comunque, concentrandosi sullo sviluppo di vaccini, antidoti o altre soluzioni per contenere i contagi da agenti batteriologici. Sebbene sia stato negato da tutti gli interessati nella maniera più assoluta, resta tuttavia il dubbio inquietante che all’interno di numerosi laboratori non ci si sia limitati alla ricerca per contenere le conseguenze dei contagi, ma siano stati invece potenziati alcuni virus per aumentarne possibilità di diffusione e mortalità. Dopo il 1989 e il crollo dell’Unione Sovietica si sviluppò anche la paura che, nella confusione, alcuni virus fossero stati sottratti dai laboratori e potessero essere impiegati da organizzazioni terroristiche o che alcuni ricercatori fossero stati rapiti per costringerli a continuare gli esperimenti. Questa paura si acuì nel periodo della ‘prima guerra del Golfo’ (Usa e alleati contro Saddam in Iraq), nel timore di fantomatiche armi di distruzione di massa, ma l’occupazione del 2003 (bugia Usa su presunte armi di distruzione di massa inesistenti), segnò anche lo smantellamento di molte strutture sospette. 

Oggi

Alla fine del secolo scorso lo scienziato inglese Terence Taylor sostenne che una trentina di chilogrammi di spore di antrace lanciate sopra un centro urbano avrebbero potuto produrre più vittime di un’arma nucleare della stessa potenza di quella di Hiroshima. La guerra batteriologica ancora oggi costituisce un incubo forse peggiore della stessa guerra chimica, a cominciare dal fatto che nuovi laboratori – più piccoli delle fabbriche di armi chimiche – si possono occultare con più facilità in mezzo a strutture sanitarie o di ricerca. L’antrace, il botulino, la peste, il vaiolo, la tularemia (infezione delle vie respiratorie) o altre febbri possono essere contrastate con adeguate terapie o con un vaccino specifico, ma già più di una decina di anni orsono erano comparsi altri potenziali agenti quali “escherichia coli 0157:H7” (che infetta le carni destinate all’alimentazione umana) o “hantavirus” (che provoca emorragie), tutti da tenere sotto stretta osservazione dalla comunità scientifica, come anche “legionella pneumophila” che, sebbene comparsa nel 1976, presenta aspetti ancora non chiariti. L’altro grande problema infine, in caso di guerra batteriologica,  resta ancora quello delle contromisure e del loro impatto sulla popolazione.

Resta il fatto -detto forte e chiaro- che il coronavirus attuale, mutazione del già noto virus della Sars, NON È ARMA BATTERIOLOGICA sfuggita da qualche arsenale segreto, e chi solo lo ipotizza è un irresponsabile creatore di panico.

Tags: armi Punzo
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