
«Ieri sera, con il 97% dei voti scrutinati, la destra aveva perduto un altro seggio, scendendo a 58 seggi, tre in meno della maggioranza di 61 seggi sui 120 della Knesset necessari per una maggioranza di governo», informa Michele Giorgio si Nena News. Netanyahu non stravince, ma solo per merito della Lista araba cresciuta a 16 seggi, tre in più di quelli che già aveva alla Knesset. «Ogni seggio in più conquistato dai palestinesi d’Israele vuol dire uno in meno per la destra di Netanyahu».
Tra gli eletti della lista araba, c’è anche il professore ebreo comunista Ofer Kassif, a conferma del carattere arabo-ebraico che vuole darsi sempre di più la formazione politica. «Abbiamo dimostrato – ha spiegato ieri il leader arabo Odeh – che sappiamo essere uniti come arabo israeliani sulla base di principi saldi e condivisi e allo stesso di essere aperti agli israeliani ebrei che vogliono un Israele diverso da come lo concepisce Netanyahu».
Netanyahu già ieri ha avviato colloqui con i suoi alleati di destra e religiosi per formare il nuovo governo. Caccia ad alcuni deputati ‘disertori’. «Ieri i media israeliani hanno fatto i nomi di alcuni eletti nelle liste di Blu Bianco (e non solo) che sarebbero pronti a saltare sul carro del vincitore in cambio di incarichi di rilievo nell’esecutivo. E comunque c’è Lieberman che segnala di essere pronto a tornare al confortevole ovile della destra, anche se detesta Netanyahu».
Il programma del futuro governo il premier lo ha annunciato già nella notte tra lunedì e martedì. Il Piano Trump come la Bibbia. A vincere le elezioni israeliane sono state «le colonie, l’occupazione, l’apartheid», ha commentato con preoccupazione su Twitter il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat. «Netanyahu – ha aggiunto – costringerà il popolo della regione a vivere per la spada con il prosieguo della violenza, dell’estremismo e del caos».
«È la parte più mediorientale d’Israele che al terzo voto in un anno è riuscita ad avvicinare il premier alla vittoria», scrive Eric Salerno nella sua analisi per l’Ispi. Si parte da Gantz sconfitto. «Gantz a livello di programma non è un vero antagonista. Il suo partito era nato raccogliendo nemici del premier, spesso sulla medesima linea politica, ma desiderosi di togliere di mezzo Netanyahu, da troppo tempo alla guida del paese, da molti accusato di essere un pericolo per la democrazia stessa d’Israele e in procinto di andare sotto processo per rispondere a tre reati per i quali è stato già incriminato».
«Un paese giovane diventato in pochi anni una delle maggiori potenze economiche e militari del mondo. Si sente parte del mondo occidentale ma allo stesso tempo – ed è comprensibile – si porta dietro il retaggio delle numerose comunità che hanno scelto negli anni di trasferirvisi. Ciò comporta forme di razzismo interno, antagonismo tra gli ebrei europei e gli ebrei nati e cresciuti nel mondo arabo. Spesso questi contrasti si traducono in scelte politiche, anche se, nelle tre campagne elettorali, l’argomento più importante per il futuro dello stato è stato appena sfiorato».
«La maggioranza del popolo vuole la pace ma quella stessa maggioranza non è a favore di uno stato palestinese libero e indipendente accanto a Israele». La proposta americana. «Un insieme di villaggi e città che gli stessi commentatori israeliani paragonano all’apartheid di sudafricana memoria. Tutto questo sembra turbare più gli ebrei americani e alcuni europei più che gli israeliani stessi che si sono fatti convincere da Netanyahu che i confini d’Israele devono arrivare al fiume Giordano e i palestinesi devono godere di diritti minori rispetto alla popolazione ebraica del paese».
«La sua agenda nell’immediato sarà contenere l’Iran (forse con qualche operazione per bloccare le nuove iniziative sul nucleare) e allontanarlo da Siria e Iraq; consolidare un specie di accordo con Hamas per evitare un nuovo conflitto e allo stesso tempo tenere separati i due governi palestinesi; seguire i suggerimenti dei militari per frenare la crescita di Hezbollah in Libano e dintorni».
«E decidere come aiutare il suo maggiore sostenitore, Donald Trump, a vincere le elezioni presidenziali del prossimo novembre». Due scenari possibili per Eric Salerno. «Non è improbabile una timida ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi, ma è anche possibile un nuovo conflitto regionale dovuto alla presenza di un numero mai visto di attori entrati in scena (Russia, Turchia, solo per citarne alcuni) e, al momento, apparentemente pronti ad aumentare le loro azioni militari pur di conquistare posizioni e ruoli nuovi in una regione dalla Libia al Pakistan che va molto oltre il Medio Oriente e i soliti vicini d’Israele».