
C’è un libro molto interessante, scritto da Jean Giono nel 1938: Lettera ai contadini sulla povertà e sulla pace (Ponte alle Grazie). Fuori dal tempo, verrebbe da dire, e proprio per questo denso di indicazioni capaci di farci capire il tempo. Di consentirci una riflessione filosofica sul senso di quello che facciamo da quando abbiamo cominciato a ignorare i valori essenziali della vita.
La guerra era alle porte. La seconda drammatica guerra mondiale, capace di scardinare ogni idea di umanità, calpestando di efferatezze il nostro modo di vivere. Giono, conosciuto per un libro sublime del 1953, L’uomo che piantava gli alberi, intuisce la crisi in modo geniale. Ce la mostra con delicatezza come indicasse il lungo periodo. La disumanità della guerra è in primo piano come linea narrativa potente. La disumanità di quello che stiamo vivendo oggi, in un mondo dominato dal profitto e dalla tecnica finalizzata al profitto, con la disumanizzazione della vita, è all’orizzonte del suo ragionamento pacato.
Giono scrive ai contadini contro la guerra, ma scrive anche a noi che dopo la guerra, dopo la girandola di guerre umanitarie, chirurgiche, per esportare democrazia, al servizio di un sistema economico di potere cinico, nei decenni che si sono succeduti, non siamo stati minimamente in grado di cambiare il corso tragico della storia. Anzi, a distanza di ottanta anni, possiamo dire che le idee per salvare il mondo, presenti nella lettera, sono oggi più necessarie che mai. L’uso del tempo, il significato del lavoro, il valore del cibo, il senso della misura, il non idolatrare il denaro, il recuperare un rapporto saggio con la terra potevano essere “motore di rinascita umana”. E potrebbero e dovrebbero esserlo anche in quest’epoca.
Ma perché questo motore di rinascita funzioni è necessario togliere alle cose che accadono, che ci accadono, l’aura di ineluttabilità. Smetterla di pensare che è normale tutto quello che avviene, l’insieme delle crudeltà, di razzismo, di ferocia sociale, di ingiustizia e indifferenza che regna nella nostra società come fosse un dato di fatto divino. In un sistema che non risolve la cause dei problemi, perché non può o non serve risolverle, ma vive di emergenze e paure, di allarmismo e dimenticanze.
Giono ci pone la domanda chiave: lavoriamo per che cosa? Come soldatini? Come ingranaggi inconsapevoli di un meccanismo tremendo? Per soddisfare bisogni indotti dal consumismo? Per garantire al sistema capitalistico, ai mercati, una quantità di schiavi felici e pronti per ogni guerra? Per quelle che si combattono con le armi e per quelle che si combattono con il cinismo…
Per cambiare il mondo ci toccherà ripartire da qualcosa che non sia questo ebete consumismo di oggetti inutili, droghe passeggere, infelicità ai massimi livelli, perdita da senso della vita. Perdita del rapporto umano tra ciò che ci serve per vivere e ciò che facciamo e ci rende brutti. Questo paradigma è usurato, insoddisfacente. Resta in piedi per il vantaggio enorme che produce per pochi e la distruzione di tutto il bene comune per tutti gli altri. Un paradigma che sempre di più somiglia a un sistema di schiavitù, nemico dell’uomo, dell’umanità, della natura, del paesaggio, della bellezza e della poesia.
Occorre invertire la rotta, ritrovare la misura, la semplicità, la bellezza, l’ascolto, lo spirito rurale che rappresenta l’unica soluzione. Smettendo di essere complici, per piccoli piccolissimi vantaggi privati, di efferatezze e drammi che stanno mettendo in ginocchio la terra, l’unica che abbiamo. E quando dico questo non penso a mollare tutto e vivere nell’oblio, penso alla rivoluzione. Penso che sia necessario quel senso critico che liberi la mente, che ci faccia riflettere sulle priorità e non solamente sugli effetti causati da questo virus che ci annienta.