
E se l’anziano senatore “socialista” Bernie Sanders riuscisse davvero ad ottenere la nomination democratica in vista delle prossime elezioni presidenziali Usa? E’ una domanda considerata fantascientifica fino a poche settimane fa e che ora, invece, trova spazio nelle analisi degli addetti ai lavori.
In effetti Sanders ha dimostrato, nei “caucus” che si sono tenuti sinora, di avere una base elettorale molto consistente, conservando il voto giovanile che già deteneva e aggiungendo al suo carnet fasce di elettori che prima non lo prendevano in considerazione.
Ha stravinto in Nevada affondando, forse in modo definitivo, la candidatura del portabandiera dei democratici moderati, l’ex vice-presidente Joe Biden. Ma ha pure ridimensionato le ambizioni del giovane Peter Buttigieg (altro moderato) e della radicale Elizabeth Warren.
D’accordo, i delegati conquistati sinora sono relativamente pochi, ma i sondaggi continuano a darlo in ascesa anche in vista del Super Tuesday del 3 marzo, quando si voterà in Stati chiave e molto popolosi quali Texas e California.
Le speranze dell’establishment democratico di ridimensionarlo si sono insomma rivelate vane, e Sanders continua la sua corsa ostentando una notevole tranquillità e insistendo su concetti a lui cari come quello della copertura sanitaria pubblica, che alle orecchie di molti americani suona ancora come un vero anatema.
Resta ovviamente l’incognita di Michael Bloomberg. Tuttavia l’ex sindaco di New York, pur impegnando nella contesa elettorale il suo enorme patrimonio personale, ha fatto una pessima figura nell’unico dibattito pubblico cui ha partecipato, finendo stritolato da tutti gli altri candidati coalizzati contro di lui.
E, anche a questo proposito, qualche riflessione sul meccanismo elettorale Usa è necessaria. Pare quasi che, per vincere, non serva tanto un buon programma, quanto l’abilità oratoria e la capacità dialettica di mettere in difficoltà gli avversari. Doti che, com’è noto, Donald Trump possiede senz’altro.
Occorre però chiedersi perché, in un Paese che è tuttora la prima superpotenza mondiale, gli aspiranti presidenti vengano valutati in base alla loro capacità di usare al meglio le parole. Questo significa che si bada più alla forma che alla sostanza, fatto che preoccupa visto il peso che gli Stati Uniti hanno nella politica internazionale.
Sanders viene spesso paragonato allo sconfitto leader laburista britannico Jeremy Corbyn, ma l’accostamento non sembra preoccuparlo più di tanto. Va dritto per la sua strada e continua coerentemente a sostenere le sue tesi. Anche perché si ha la sensazione che esse non appaiano più così “strane” a larghe porzioni dell’elettorato.
Rammentiamo, allora, che nelle ultime elezioni ben pochi attribuivano possibilità di successo a Donald Trump, e poi si è visto come è andata a finire. Potrebbe succedere anche questa volta, benché sul versante politico opposto.
Gli Usa sono molto cambiati, diventando un Paese in cui i vecchi schemi, proprio come è accaduto in Europa, sono completamente saltati. Potremmo quindi avere una contesa finale tra Trump e Sanders, e il risultato potrebbe essere assai meno scontato di quanto gli analisti ipotizzano.