I boschi della montagna sacra e chi li distrugge

Il bosco d’inverno, in questo inverno senza neve, ha luci profonde e riflessi argentati. Le foglie dei faggi, rosse incantate, disegnano l’ambizione di ogni tronco pallido che s’innalza verso il cielo. Al passaggio, sulla strada tortuosa, appare come una cattedrale sacra di silenzi e sconosciute melodie distanti. La nebbia che si insinua sfuma delicatamente i contorni, li rende opachi, sbuca un capriolo leggiadro e bianco. Resta immobile e poi quattro salti ed è nella faggeta. Occorre fermarsi e assaporare la magia. Lo sguardo vaga e aiuta il pensiero a sentirsi completamente immerso in ciò che conta da sempre, l’intreccio delicato e ancestrale tra natura umana e la sacralità dei territori. 

Una curva più in là, la ferita. Un’intera collina devastata. Niente alberi, niente intenso rapporto tra luce, tronchi e sottobosco. Solo la distruzione di un taglio efferato, meccanico, straziante. Una violenza evidente, fatta di sottobosco distrutto, di tronchi ancora accatastati e rovine di quello che era un pezzo di bosco. 

Più avanti un altro spazio spelacchiato di devastazione. Legna al posto di alberi. Rottami ovunque e camion che portano via gli alberi. E ancora tronchi giganteschi abbattuti, bruttezza. Solo perfida bruttezza in un luogo fatato di bellezza, in una riserva di futuro per tutti noi. Vi ricordate il Signore degli anelli? Quando Saruman distrugge la foresta per alimentare una fabbrica di orchetti? La stessa cosa. Da una parte la vita, dall’altra l’ombra e la distruzione.

Non vado oltre, non parlo dei muschi magnifici e delle pietre laviche tondeggianti che raccontano la storia del mondo. Non parlo dei folletti del bosco, della riscoperta di senso necessaria e neanche del genius loci. Parlo dell’efferatezza delle scelte dell’uomo. Incapace di guardare al bene comune e alla vita, in grado solo di trarre profitto economico da ogni cosa, senza troppe sottigliezze. Senza più neanche fermarsi a pensare. Per assuefazione, per omologazione, perché ci sono cose più importanti e altre quisquilie filosoficamente irrilevanti.

Lo sappiamo, il mercato funziona così, ci dicono. E il capitalismo non fa prigionieri. Quindi le regole del gioco, nella democrazia asimmetrica, le detta il denaro. E la politica, dopo una serie di passaggi assurdi e antidemocratici, non fa più da equilibratrice tra poteri ricchi e i cittadini, tra interessi privati e bene comune. Sembra che il bene comune sia a totale disposizione dell’interesse privato. 

Non entro neanche nella questione della legalità di questi tagli osceni. Probabilmente dei geni di questa epoca mediocre, i furbetti del salottino, hanno stabilito regole che permettono ad alcuni di privare la collettività di un bene comune e fondamentale. E l’avidità fa il resto. Dico però che in una fase di dissesto idrogeologico, di un futuro messo in discussione dalla follia umana, con cambiamenti climatici che solo i politici cresciuti alla scuola di Sbirulino possono negare, noi cittadini non possiamo che indignarci. E fare dell’indignazione un carburante che ci sottragga alla rassegnazione. Non possiamo che batterci perché le cose cambino. Partendo dalle basi. Dagli alberi. Dalla bellezza. Dalla cura per il miracolo della vita. 

Ognuno deve fare la sua parte. Riflettendo su ciò che conta da sempre, e che non possiamo lasciare in balia di ciò che conta  solo ora, il profitto nudo e crudo. A ogni costo. 

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