
In questi ultimi giorni si è manifestato, in tutta la sua asprezza, il mai completamente sopito antagonismo tra Aeronautica e Marina Militare. Mi riferisco alla ventilata possibilità di consegnare all’Aeronautica un’aliquota di velivoli F-35B (versione “navale”, a decollo corto) destinati inizialmente alla Marina. Una decisione che sarebbe in procinto di essere presa dai vertici della Difesa.
Da strumento inizialmente impiegato quasi esclusivamente in appoggio alle operazioni “terrestri”, il mezzo aereo si è rivelato estremamente utile anche quando impiegato sul mare, a sostegno delle manovre navali. Ciò fece comprendere alle principali marine del mondo le potenzialità del “nuovo” mezzo, imbarcato ai fini della proiezione di potenza. La Prima Guerra Mondiale evidenziò la notevole differenza esistente tra il teatro operativo della Marina e quello dell’Aeronautica, i diversi impieghi e, di conseguenza, il diverso addestramento cui dovevano essere sottoposti i piloti, inducendo le principali marine a costituire forze aeree (mezzi e personale) dedicate e dipendenti da una catena di Comando che facesse capo ai vertici della Marina e non a quelli dell’Aeronautica.
Purtroppo, quelle esperienze non furono valorizzate dall’Italia, che fece prevalere la corrente di pensiero, favorita da chi evidentemente desiderava mantenere un casalingo dominio dei cieli, che vedeva la nostra penisola come “…un’enorme portaerei protesa sul Mediterraneo…”. Venne, pertanto, seguita la rotta della costruzione di corazzate, già ovunque ormai operativamente sul viale del tramonto, invece delle innovative portaerei, con tutte le tragiche conseguenze che la storia del secondo conflitto mondiale ci ha tramandato (es.: richieste di copertura aerea che dovevano superare due catene di comando e intervento mancato o in ritardo, a battaglia già tragicamente conclusa o mancata protezione aerea dei convogli di rifornimenti destinati all’Africa).
Una peculiarità delle Marine è la capacità di allungare il braccio armato dello Stato ovunque sia richiesto, non facendo ricorso alla forza ma essendo pronta a usarla, applicando in sostanza la “naval suasion” principalmente per difendere la libertà di navigazione contro i pirati o chiunque agisca per limitare tale libertà, indispensabile per assicurare la libera circolazione delle merci e l’approvvigionamento delle materie prime, in particolare in un mondo globalizzato quale l’attuale. Ma la capacità operativa delle Marine può essere impiegata anche per la lotta al terrorismo internazionale, al traffico di armi, droga o di esseri umani (ispezioni a bordo dei mercantili) e per compiti di protezione civile internazionale come portare soccorso e aiuti alle popolazioni colpite da disastri naturali.
Una Marina in grado di proiettarsi efficacemente in acque lontane, assicurando presenza e sorveglianza in aree di importanza strategica del proprio Paese (Il concetto di Mediterraneo allargato, l’area di principale interesse strategico dell’Italia, comprende l’Europa, il Mediterraneo, il Medio Oriente, buona parte dell’Africa e l’Oceano Indiano fino alla penisola indiana) risulta indispensabile per la tutela degli interessi economici e politici dello Stato, per poter adeguatamente partecipare ai dispositivi navali internazionali operanti sotto egida ONU, NATO, UE o di coalizioni ad-hoc, come nel caso delle missioni antipirateria, sorveglianza degli Stretti o in esecuzione di accordi internazionali (missioni internazionali in corso e altre in programma).
Appare, quindi, assolutamente anacronistico e strategicamente cieco il tentativo di voler ritardare o, peggio, mutilare il raggiungimento della piena capacità operativa della Marina e delle sue portaerei, indispensabile in contesti di minaccia elevata.
Una parte della Marina di uno Stato moderno e con orizzonti strategici che vadano oltre lo steccato del proprio orticello, è destinata a navigare lontano dalle proprie acque territoriali perché la sicurezza marittima, in tutti i suoi aspetti, costituisce un valore innegabile e irrinunciabile di qualunque Stato indipendente. Rallentare le capacità operative e strategiche di una Forza Armata, limitandone il ruolo internazionale e rinunciando a perseguire l’obiettivo di avere Forze Armate complementari e non antagoniste, significa ragionare ancora in termini di campanile, arretrando le lancette dell’orologio Italia, che non ne ha alcun bisogno.