Nel 430 a.C., nel secondo anno della guerra del Peloponneso, Atene fu colpita da un’epidemia mortale. Sebbene per venticinque secoli si sia parlato di ‘peste’, recenti analisi di laboratorio di alcune scoperte archeologiche hanno fatto sorgere l’ipotesi che si trattasse piuttosto di una forma violentissima di febbre emorragica. La scienza non ha ancora dato una risposta precisa (né a breve se ne intravvede una), ma una rilettura attenta del poeta latino Lucrezio e di altri sparsi frammenti di testi medici della scuola di Ippocrate, sembrerebbe sostenere questa nuova tesi. Secondo Tucidide il contagio, proveniente dall’Africa (e per la precisione dall’Etipia), giunse ad Atene attraverso il porto del Pireo, l’ingresso principale alla città per uomini e merci. Il sovraffollamento urbano e le conseguenti carenze igieniche fecero il resto.
Dalle campagne infatti numerosissimi profughi erano fuggiti per cercare tra le mura scampo e rifugio alla guerra. La paura della malattia e della morte trasformarono il modo di vivere degli ateniesi che non rispettarono più le leggi o le antiche tradizioni. Tucidide ed altri videro nell’epidemia una sorta di castigo degli dei e tuttavia non cercarono responsabili tra gli altri cittadini: in un paio di righe Tucidide riferisce anche di voci tra gli ateniesi secondo le quali i pozzi erano stati avvelenati (libro II, 48), ma se ne guarda dal riferire che il contagio fosse stato diffuso ad arte. Gli stessi nemici di Atene, gli Spartani, noti per il loro sprezzo del pericolo in battaglia, si trattennero dall’avvicinarsi alla città vedendo le alte nubi di fumo provenienti dai roghi dei corpi.
Nel Medioevo la peste ed altre epidemie costituirono un autentico flagello. La peste nera, diffusasi a partire dal 1300, imperversò in diverse ondate e ridusse di poco meno di un terzo la popolazione europea del tempo: ciò significa che, stimandola approssimativamente in circa settanta milioni di abitanti, le vittime furono venti. Fu una vera epidemia di peste e non di altra malattia: il contagio avveniva attraverso le pulci che infestavano i ratti e da queste si trasmetteva all’uomo. Come nel caso di Atene nelle città colpite le abitudini degli abitanti, ossessionati dal contagio, si trasformarono spinte dalla paura e dall’incertezza. La scienza ufficiale del tempo collegò l’epidemia ad altri eventi catastrofici naturali come i terremoti, che avevano liberato dalle viscere della terra una nube velenosa, o al movimento degli astri, essendosi verificata in quel periodo una congiunzione negativa tra Giove, Marte e Saturno.
Si tornò a parlare come nell’antichità di castigo divino e le due grandi religioni monoteiste (che avevano soppiantato il politeismo dei tempi di Tucidide) svilupparono teorie proprie sul morbo: secondo i musulmani la malattia doveva essere affrontata con rassegnazione, mentre secondo i cristiani si doveva fare ammenda dei propri peccati. Si diffuse così tra le altre anche la pratica dell’autoflagellazione, i cui eccessi furono però banditi dalla chiesa. La psicosi del contagio si sviluppò ben presto in isteria collettiva e si verificarono numerosi gravi episodi di intolleranza, soprattutto nei confronti di ebrei accusati di avvelenare l’acqua.
La ‘colonna infame’
Di fatto la peste continuò ad imperversare anche dopo il Medioevo e una delle tante epidemie si scatenò nuovamente in Italia settentrionale tra il 1629 e il 1633, proprio mentre in Germania era in corso la Guerra dei Trent’anni. La particolare notorietà di questa epidemia è dovuta alla narrazione che ne fa Alessandro Manzoni nei ‘Promessi sposi’ e si può dire che molti personaggi e situazioni siano ancora vivi e vegeti nel nostro immaginario. Per prima cosa Manzoni racconta della guerra che devasta il ducato di Milano e dei profughi che riparano in città, poi dei primi casi di peste che non sono ancora dichiarati tali e dell’accorta prudenza delle autorità nel prendere una posizione precisa; le stesse autorità – nel racconto manzoniano – diventeranno latitanti abbandonando la città ai monatti (quelli che raccoglievano i corpi delle vittime) e ai frati cappuccini impegnati nell’assistenza al lazzaretto, altra istituzione che dietro una copertura sanitaria sembra anticipare campi profughi, se non proprio di concentramento.
In questo quadro Manzoni colloca un dettaglio non secondario: la caccia all’untore, nata dal’assurda credenza che alcuni uomini con unguenti velenosi o altre forme di maleficio diffondessero la malattia. Lo scrittore infatti fu anche autore di un’opera minore (La storia della colonna infame) in cui descrisse un processo tenuto contro due accusati di propagare la malattia. Condannati a morte con un atroce supplizio, ma innocenti, sul luogo dell’abitazione rasa al suolo di uno dei due, fu eretta la famigerata ‘colonna infame’.