Libia a Berlino, applausi incerti, dubbi, sospetti e petrolio

La stampa italiana su Berlino-Libia

Corriere della sera – «A Berlino decisa una mini tregua»
Sarraj e Haftar concordano il monitoraggio e si impegnano a non determinare un’escalation. I due leader, però, si evitano.
Amendola: «Missione europea, Italia pronta se Onu e Libia ce lo chiederanno»
Repubblica – «Libia, embargo e tregua. Ora c’è l’impegno delle grandi potenze»
La Conferenza di Berlino si chiude con l’accordo per lo stop alle ingerenze. Il sì di Haftar e Serraj a un comitato militare che controlli il cessate il fuoco
Chi ha vinto a Berlino (Andrea Bonanni): “Oggi sappiamo che non abbiamo potuto risolvere tutti i problemi”: come sempre è il realismo di Angela Merkel, in contrasto con il trionfalismo degli altri partecipanti al vertice sulla Libia, a dare la misura di chi veramente ha vinto al tavolo di Berlino, e di chi invece vuol solo far credere di aver vinto. La Germania, e con la Germania l’Europa, porta a casa un risultato su cui pochi erano disposti a scommettere prima di ieri“.
La Stampa – «Si chiude il vertice sulla Libia, Merkel: “Tutti d’accordo sulla soluzione politica”»
Ancora divisioni tra Sarraj e Haftar, ma c’è intesa sul documento finale. La cancelliera: «Strada difficile, non mi faccio illusioni, predisposta la strada per andare avanti»
Conferenza di Berlino sulla Libia: quali sono i 7 punti della bozza del documento finale?
La bozza della dichiarazione finale della Conferenza internazionale di Berlino sulla Libia, che si auspica di firmare nella capitale tedesca, è costituita da sette punti principali. Per attuare l’iniziativa viene proposto di creare uno “speciale meccanismo internazionale per accompagnare le decisioni prese dal vertice, al fine di mantenere il coordinamento dopo Berlino“.

I Paesi coinvolti, dalla Turchia alla Russia, hanno approvato un embargo sulle armi e promesso di non interferire nel conflitto

I veri motivi della crisi, Orteca

Haftar vuole bloccare le esportazioni di 700 mila barili di greggio al giorno. Il ruolo sempre più invadente della Turchia.

Petrolio gas ma anche uranio

Storiaccia cominciata quando i servizi segreti francesi organizzarono a tavolino le rivolte libiche e l’assassinio di Gheddafi. L’inglese Cameron gli andò appresso come un imbecille e, sorpresa delle sorprese, anche il Presidente Usa Obama cadde nel trappolone ordito da quel malfattore di Sarkozy. Allora si disse che la Francia aveva agito sanguinosamente e senza scrupoli per motivi “energetici”. E subito si pensò al petrolio, mentre in effetti, sotto la sabbia che dal deserto libico porta al Tibesti si agitava un altro appetito pantagruelico. Quello che conduce all’uranio. La storia è più vecchia del cucco e già lo abbiamo scritto in tutte le salse. L’“esportazione” della democrazia fu solo la foglia di fico utilizzata dai francesi per perseguire il loro avido tornaconto.

Già con Gheddafi era guerra civile

Oggi, a distanza di quasi una decina d’anni, gli scenari sul campo si sono ancora di più incancreniti. Sbarcare in Libia per soddisfare le foie di grandezza della Francia del tempo che fu, ci sono costati una quantità enorme di rogne. E oggi i nodi vengono al pettine. Mettere piede nelle dispute  libiche ha voluto significare cadere in un ginepraio con tutte le scarpe. Allora, sin dalle prime fasi della cosiddetta “Primavera araba libica”, anche i deficienti compresero subito che di guerra civile si trattava. Anzi, di guerra tribale. Dove la Cirenaica combatteva contro la Tripolitania, col Fezzan  e tutte le bande beduine a fare da contorno. Gheddafi aveva praticamente sterminato tutti i fondamentalisti islamici, ma francesi, inglesi e americani gli riaprirono le porte e fecero dell’ex “cassone di sabbia”,  di giolittiana memoria, un nuovo paradiso jihadista.

Cirenaica contro Tripolitania

Beh, oggi la mattanza continua, sia pure con connotati e scenari diversi. Haftar con El-Serraj non è altro che la riproposizione di Cirenaica contro Tripolitania o, se volete, di Bengasi contro Tripoli. In mezzo si agitano tutte le compagnie internazionali in processione che cercano di mettere le mani sul bottino. L’avidità della diplomazia francese hanno fatto rientrare in gioco nello scacchiere libico, potenze che erano scomparse da decenni. La Russia prima di tutto, l’Iran e anche la Turchia. E l’Italia che aveva nella regione una sua autorevole voce in capitolo? Si è squagliata, sotto i colpi di governi imbelli che si sono fatti truffare da paesi cosiddetti ‘amici’. Ma la riflessione più inquietante che va fatta sulla Libia contemporanea, è che essa rappresenta un modello di crisi regionale mediorientale che si salda con le altre aree di crisi per diventare la tessera di un gigantesco mosaico traballante. 

Gigantesco mosaico traballante

Un campo neutro dove super potenze e potenze regionali giocano le loro privatissime guerre come se si trattasse di un video-gioco. Dunque, la Libia diventa  la metafora di tutti gli incredibili e marchiani errori fatti in Medio Oriente e in Nord Africa dalla diplomazia occidentale. Dopo innumerevoli giri di valzer, che hanno frastornato fior di analisti, oggi il cerino è rimasto in mano a numerosi grandi paesi. Di sicuro, nel mazzo, oltre agli Stati Uniti (isolazionismo con Trump, salvo pentimenti estrosi), metteteci anche l’Italia, la cui politica estera, da quelle parti, nell’ultimo decennio è sembrata  tenere una rotta come quella di un transatlantico senza timone. Giudizio?  Zero tagliato. Come quello che si meritano il premier Conte e il ministro degli esteri Di Maio di fronte  a problemi che sono infinitamente più grandi di loro e delle loro teste. 

Commissione Onu per non decidere?

Come in Italia, quando non si sa non si vuole o si può decidere come risolvere un problema, si istituisce una commissione, anche all’Onu le cose cominciano a funzionare così. Nel caso specifico si è organizzata una conferenza (quella di Berlino) pensata innanzitutto per lavarsi la faccia, sperando alla fine di trovare anche una soluzione o almeno una pezza alla crisi. E se il “cirenaico” Haftar ha bloccato le esportazioni di petrolio (anche lì, forse si, forse no), ciò significa che la campana a morto, meglio l’allarme generale, suona forte per tutti. Settecentomila  barili di greggio al giorno in meno possono sembrare poco, ma dal punto di vista delle aspettative della psicodiplomazia vogliono dire tanto.

Haftar, l’uomo che vuole (salvare) la Libia

Da Gheddafi agli Usa, il generale di cui pochi si fidano (red Ansa)

Si è presentato come il “salvatore” della Libia dal caos e dai gruppi integralisti islamici, ma non tutti hanno fiducia in lui e in molti lo temono. Khalifa Haftar, generale in pensione, 71 anni, proveniente dai ranghi dell’accademia militare di Bengasi, si è formato nell’allora Unione Sovietica e ha partecipato al colpo di stato del 1969 che portò al potere Muammar Gheddafi. Durante la guerra tra Libia e Ciad (1978-1987) Haftar, alla testa di un’unità, viene fatto prigioniero dall’esercito di N’djamena e sconfessato dal Colonnello. Secondo Tripoli, il generale non faceva parte delle sue truppe. E’ a questo punto che entrano in campo gli Stati Uniti. Lo liberano con un’operazione dai contorni non chiari e gli concedono asilo politico. Negli Usa si unisce ai ranghi della diaspora libica, mentre sono in molti, a partire da Gheddafi, ad accusarlo di essere un agente della Cia.
    Dopo vent’anni di esilio, rientra a Bengasi nel marzo 2011, poco dopo lo scoppio della rivolta contro il Colonnello, e viene nominato capo delle forze di terra dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt), braccio politico della ribellione. Ai suoi ordini ci sono molti ufficiali del regime che hanno abbandonato Gheddafi.
    Ma le autorità del ‘governo’ di transizione non hanno in lui completa fiducia. Lo considerano ambizioso, avido di potere e temono che punti alla leadership di una nuova dittatura militare. Una feroce rivalità lo oppone al generale Abdel Fatah Younes, comandante militare della ribellione assassinato in circostanze mai chiarite nel luglio 2011, mentre diviene sempre più evidente il largo sostegno di cui Haftar gode tra i militari dell’ex regime. Poco dopo la caduta di Gheddafi, 150 tra ufficiali e sottufficiali lo nominano capo di stato maggiore, mettendo il Cnt davanti al fatto compiuto. 

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