
Altro capitolo nella guerra commerciale che vede impegnati Stati Uniti e Cina. Giunge infatti notizia che il governo di Pechino obbligherà i propri uffici pubblici a utilizzare soltanto hardware e software cinesi entro il 2022.
Detta così potrebbe anche sembrare roba da poco. In realtà si tratta di una mossa in grado di alterare gli equilibri negli scambi hi-tech tra i due Paesi, e che risponde alla strategia americana volta a scoraggiare l’uso dell’alta tecnologia cinese negli Usa.
Anche se l’ordine emanato dall’ufficio centrale del Partito Comunista non riguarda – per ora – il settore privato, il divieto è comunque destinato a produrre conseguenze di enorme portata viste le dimensioni del comparto pubblico in Cina. Né si può trascurare il fatto che la distinzione pubblico/privato è sempre piuttosto incerta quando si parla del colosso asiatico.
E’ chiaro l’intento di promuovere ad ogni costo il “made in China” anche in settori dov’erano più forti gli effetti della globalizzazione, come per l’appunto gli scambi riguardanti l’hi-tech. Gli analisti avanzano dubbi circa l’effettiva realizzabilità di quest’ultima campagna cinese, poiché secondo molti l’alta tecnologia del Dragone non è ancora in grado di competere ad armi pari con quella americana.
Tuttavia negli ultimi anni la Repubblica Popolare ha spesso sorpreso tutti con progressi spettacolari – e imprevedibili – che le hanno consentito di assurgere al ruolo di seconda potenza mondiale anche in ambito tecnologico, e può darsi che la leadership di Pechino abbia calcolato di poter fare una simile mossa senza eccessive ricadute negative.
Mai come in questo caso si assiste al rallentamento del processo di globalizzazione che per decenni non aveva conosciuto soste. Eppure non è per nulla facile tornare indietro, pur in presenza di nazionalismo e protezionismo che acquistano un vigore sempre crescente. Anche perché incoraggiati, in parecchi casi, dagli stessi governi nazionali.
Basti pensare, per fare un solo esempio, che il colosso cinese Lenovo, il più grande fornitore mondiale di personal computer, possiede la divisione pc di IBM, e ha pure acquistato il produttore di telefoni cellulari Motorola. Ha inoltre centri di ricerca non solo in Cina, ma anche in Giappone e negli Stati Uniti.
E’ lecito, a questo punto, trattare Lenovo come azienda puramente cinese, o non è più opportuno considerarla una multinazionale con interessi molto rilevanti negli Usa? E altri esempi al riguardo si possono facilmente citare.
Consegue da tutto ciò che la strategia del “decoupling”, che punta al distacco tra le economie delle due maggiori potenze mondiali, è assai difficile da mettere in atto, certamente molto più di quanto pensino Donald Trump e altri sostenitori del protezionismo. Perché, in realtà, se i cinesi sono presenti negli Stati Uniti vale anche l’opposto, con una rilevante presenza americana nella Repubblica Popolare.
Mette infine conto notare che, come sempre, l’Europa fa la figura del classico vaso di coccio tra vasi di ferro, come si è già visto di recente con i veti americani alla presenza di Huawei nelle reti 5G europee. E, per quanto riguarda in particolare l’Italia, sono purtroppo lontanissimi i tempi in cui la Olivetti competeva ad armi pari nei mercati mondiali.