
Ex Ilva, slitta ancora il ricorso contro l’addio di ArcelorMittal: “Operazione complessa”
Oggi i legali del colosso siderurgico in amministrazione straordinaria presentano all’autorità giudiziaria di Taranto, l’analisi di rischio per l’Altoforno 2, l’impianto oggetto di conflitto con il gruppo francoindiano in uscita
ArcelorMittal, la società che sta minacciando il governo italiano di abbandonare l’ILVA di Taranto se non saranno accettate le sue condizioni, tra cui c’è il licenziamento di 5 mila dei diecimila dipendenti dell’azienda, è il più grande produttore d’acciaio del mondo. È un colosso che fattura quasi 80 miliardi di euro l’anno, con sede in Lussemburgo, impianti in più di 60 paesi e controllata da Lakshmi Mittal, un cittadino indiano che è tra gli uomini più ricchi del pianeta.
Mittal è nato nel 1950 nello stato indiano del Rajasthan e secondo Forbes è intorno alla 130esima posizione della classifica degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio di circa 12-13 miliardi di euro, a seconda delle quotazioni azionarie della sua società. La carriera da imprenditore è iniziata nel 1976, quando grazie ai capitali di famiglia e una piccola acciaieria in India, aprì il suo primo stabilimento in Indonesia. Da allora, il suo impero non ha fatto che allargarsi. Oggi Mittal risiede in una villa nel quartiere di Kensington, a Londra, che, quando fu acquistata dieci anni fa, per circa 120 milioni di euro, era l’abitazione più costosa del mondo.
Il nome della società che ha reso Mittal uno degli uomini più ricchi del mondo, ArcelorMittal, nasce dalla la più importante acquisizione compiuta dal gruppo: la scalata ostile alla Arcelor, il gigante dell’acciaio franco-spagnolo. L’acquisizione, portata a termine nel 2006, costò a Mittal e ai suoi alleati circa 30 miliardi di euro, ma la società che ne uscì, ArcelorMittal, divenne il più grande produttore del mondo, in grado di sfornare da sola tra il 5 e il 10 per cento di tutto l’acciaio prodotto al mondo.
Oggi, ArcelorMittal è una multinazionale con fabbriche in Messico, Canada, Algeria, Romania, Brasile e molti altri paesi ancora. Attualmente impiega circa 200 mila persone: poco più di metà lavora in Europa, mentre gli altri sono divisi tra Asia, Nord America e il resto del mondo. Il giro di affari dichiarato della società, circa 80 miliardi di euro l’anno e -beffa- nel 2018, l’anno scorso, dopo alcuni anni non positivi, ArcelorMittal ha potuto distribuire ai suoi azionisti -al 40 per cento, c’è proprio la famiglia Mittal- oltre 5 miliardi di euro.
Il controllo sulla società, ha raccontato il Sole 24 Ore, viene esercitato dai Mittal attraverso sei ‘trust’, «un particolare tipo di società utilizzato da imprese e individui molto ricchi per pagare meno tasse». I sei trust hanno sede nell’isola di Jersey, una specie di mini-paradiso fiscale dipendente dal Regno Unito e situato nel Canale della Manica. Quando nel 2010 Mittal decise di creare i sei trust per riorganizzare il suo impero, racconta il Sole, scelse sei nomi di metalli. I sei trust quindi si chiamano Platinum, Gold, Silver, Chromium, Americium, Osmium e Titanium. L’ultimo anello di una lunga catena dove, dopo un lungo giro tra fiduciarie e holding con sede a Gibilterra e in altri paradisi fiscali, arrivano i soldi della famiglia Mittal.
All’altro capo della catena rispetto ai trust, spiega sempre il Sole, si trova ArcelorMittal, la multinazionale vera e propria con sede in Lussemburgo, un altro paese con un regime fiscale molto vantaggioso per le imprese. Grazie a queste complicate strutture, ArcelorMittal è in grado di pagare pochissime tasse (anche in Italia, oltre al ricatto attuale). Le sue pratiche di elusione fiscale sono state raccontate in un’inchiesta del sito francese MediaPart, e ha ricevuto accuse di evasione fiscale anche da diversi governi, come quelli di Ucraina e Bosnia, accuse di aver compiuto violazioni ambientali e aver agito con mano pesante sulle comunità locali in molti dei paesi dove opera.
Nel 2018, ArcelorMittal si è presentata alla gara per acquistare l’ILVA di Taranto e gli altri due impianti espropriati alla famiglia Riva, accusata di aver violato per anni le leggi di sicurezza e quelle ambientali. Nonostante la sua reputazione, la sua offerta è stata giudicata migliore di quella della cordata rivale, Acciaitalia, capeggiata da un’altra società indiana, Jindal. L’assegnazione della vittoria ad ArcelorMittal, avvenuta ufficialmente il primo novembre 2018, è stata subito controversa. Già all’epoca, diversi analisti accusavano la multinazionale di non avere intenzione di rilanciare gli impianti italiani, ma di avere come unico obiettivo di sottrarli a un potenziale concorrente.
Altri hanno difeso la società, sostenendo che era l’unica disposta ad investire le cifre necessarie (circa 2 miliardi di euro) a mettere in sicurezza l’impianto di Taranto, e in particolare i suoi estesi parchi dove sono depositati i minerali di ferro, attualmente esposti al maltempo che spesso ne soffia le polveri sulla città di Taranto. A condurre la gara e le trattative con ArcelorMittal fu prima l’allora ministro Carlo Calenda, con il governo Gentiloni, e poi Luigi Di Maio, durante il primo governo Conte. Nel contratto con il governo italiano, ArcelorMittal si era impegnata a investire più di 4 miliardi di euro nella società, di occuparsi delle bonifiche dell’impianto di Taranto, e di mantenere al lavoro tutti i diecimila dipendenti della società. Da allora però il mercato dell’acciaio è andato male assieme ai piani industriali dei supermanager che avendo sbagliato tutti i loro calcoli, ora decidono di far pagare il conto a noi.