
Bihać, la città bosniaca al confine con la Croazia, incastonata tra i monti e attraversata dal fiume Una. Durante la guerra era una delle ‘safe haven’ (area protetta), dichiarata inutilmente dalle Nazioni Unite. Con lei, altre cinque zone della Bosnia-Erzegovina, con alcuni nomi che bastano a trasformare la indignazione in tragedia: Sarajevo, Goražde, Srebrenica, Žepa, enclavi di sopravvivenza e di massacri e genocidi che continuarono a essere bersaglio, bombardate e attaccate fino a fine 1995.
«In guerra la normalità diventa lo scoppio delle granate e non avere da mangiare». Anche a Bihać. Secondo il Centro di documentazione e ricerca di Sarajevo, durante la guerra (tra il 1991 e il 1995) a Bihać sono state uccise 4.856 persone. Dopo la fine del conflitto, solo alcune organizzazioni internazionali si sono occupate delle ferite della guerra: delle vittime di violenza e di stupro, delle famiglie degli scomparsi, dei sopravvissuti, dei profughi interni alla Bosnia, neppure immaginando cosa si preparava da fuori.
Più di un milione di persone sono fuggite dalla Bosnia durante il conflitto. Dopo la guerra, alcune sono tornate. «Ma Bihać (area neutrale e senza patria tra Federazione croato musulmana e Srbska Republika), come molte cittadine bosniache, continua a essere un posto da cui tutti vogliono scappare», scrive Annalisa Camilli. «Per questo negli ultimi due anni il transito di quarantamila profughi sulla rotta balcanica e diretti nei paesi del Nordeuropa, ha suscitato sentimenti contrastanti. È come se questo passaggio avesse riaperto una ferita mai rimarginata».
«A Bihać è successo qualcosa di simile a ciò che è successo da voi a Lampedusa», dice l’imam. «I sopravvissuti della guerra ricordano quando erano profughi e la gente sente un’empatia molto forte verso i migranti, perché sa cosa vuol dire lasciarsi alle spalle la propria casa». «Ma a due anni dai primi arrivi un sentimento di ostilità verso i profughi si è impossessato di molti e si è riattivata l’antica paura dell’invasione. I profughi – che provengono in maggioranza da Afghanistan, Pakistan, Iran, Siria e Iraq – agli occhi di molte persone di qui sono diventati pericolosi, potenziali invasori».
Nel giugno 2019 c’è stato un blitz molto violento della polizia nelle case abbandonate e nei parchi della città dove sopravvivevano i migranti. I profughi rincorsi dagli agenti, picchiati, caricati a forza su dei pullman e portati a undici chilometri dal confine con la Croazia, a Vučjak, in un campo gestito dalla Croce rossa che è stato costruito al posto di una discarica, in un punto dove durante la guerra passava la linea del fronte. In Bosnia dal 2018 hanno transitato 40mila persone e circa seimila di loro sono bloccate nel cantone di Una-Sana, intorno a Bihać.
«Al confine, nei boschi, è alta la probabilità che i profughi incontrino i manganelli e la violenza dei poliziotti croati, rimandati indietro in una specie di stato cuscinetto ai margini dell’Europa». “The game”, il gioco pericoloso, il tentativo di attraversare la frontiera europea e di eludere i controlli delle pattuglie croate. Un gioco che spesso si deve ricominciare da capo, pagando un prezzo molto alto in termini di sofferenza, di denaro speso e di tempo buttato e di botte croate prese.
«La chiusura delle frontiere europee e certe sottolineature politiche sulla paura a incasso elettorale ha prodotto una crisi umanitaria nei Balcani che alimenta razzismo e xenofobia», denuncia Annalisa Camilli. Il sindaco di Bihać, Šuhret Fazlić, in campagna elettorale, sospenderà la fornitura di acqua, di elettricità e raccolta dei rifiuti. Pre sterminio, contando su Gelo Inverno che lì è feroce. Disumanità e bastardaggine. «Un corto circuito che pagheranno interamente i profughi. Si profila una grave crisi umanitaria alle porte dell’Unione europea, senza soluzioni», denunciano Caritas italiana e altre Caritas europee.
Decisione crudele della municipalità per ottenere risposte da Bruxelles e da Sarajevo, che non arrivano. «E a 25 anni dalla fine della guerra, i paesi balcanici sembrano intrappolati in tanti paradossi: sono la frontiera dell’Europa, ma ricevono poco in cambio». Nel campo, a quattordici chilometri da Bihać manca tutto: acqua, elettricità, servizi igienici, il cibo non basta. I pochi bagni sono inservibili. “L’area fuori del campo è minata, alcune settimane fa abbiamo trovato una bomba inesplosa, qui passava la linea del fronte”.
Ogni notte gruppi di migranti provano a violare la frontiera con la Croazia, ma trovano i manganelli dei poliziotti a fermarli. Li picchiano, li arrestano e li rimandano indietro. Gli vengono sequestrati i cellulari e rubati i soldi. I respingimenti violenti da parte della polizia croata sono stati condannati dal Consiglio d’Europa e dal Parlamento europeo, ma continuano a essere all’ordine del giorno perché Zagabria di fatto condivide. Degli attivisti al confine hanno appeso un cartello: “Benvenuti in Croazia, il paese della tortura”. Memento di regime Ustascia e del campo di concentramento croato di Jasenovac.