
Donald Trump sembra ormai rassegnato ad essere messo in stato d’accusa, e si prepara ad aizzare la sua tifoseria più militante, ma assieme muove tutto il potere, enorme, del suo incarico. La macchina giudiziaria della Camera avanza velocemente tra interrogatori e mandati giudiziari con cui ha chiesto documenti al segretario di stato Mike Pompeo e, ieri, anche alla Casa Bianca e al vicepresidente Mike Pence, con un ultimatum che scade il 18 ottobre. Quelle telefonate di Trump al presidente ucraino Zelensky per cercare di screditare l’avversario democratico Biben attraverso il figlio. Trump, Pence e Pompeo cercano di prendere tempo con contestazioni che potrebbero finire sino alla corte suprema, ma la strada è segnata. Pare solo questione di tempo.
Incombe pure una seconda spia contro il presidente. Il New York Times rivela che un altro 007, con informazioni più dirette della prima talpa, sta valutando se formalizzare una propria denuncia come ‘whistleblower’ (informatori protetti dalla legge) e testimoniare al Congresso. Da testimonianze di diplomatici Usa e sms emerge che gli Stati Uniti (Trump) condizionarono gli aiuti militari a Kiev e una visita alla Casa Bianca di Zelensky all’avvio di un’inchiesta su Biden e figlio. L’ex vice di Obama va all’attacco e accusa Trump di aver abusato della politica estera Usa «chiedendo direttamente a tre governi stranieri di interferire nelle elezioni americane, compresa la Russia, uno dei nostri maggiori avversari, e la Cina, il nostro competitore più vicino».
Sempre il New York Times’ svela la misteriosa visita a Roma dell’attorney general William Barr e del procuratore federale John Durham, che lo accompagnava, incaricato della contro inchiesta sulle origini del Russiagate per verificare se sia stata un’operazione dei servizi segreti occidentali – compresi quelli italiani – per impedire l’elezione di Donald Trump. Quando i due sbarcarono a Roma a fine settembre, rivela il New York Times, neppure gli uomini Cia all’ambasciata Usa di Via Veneto conoscevano i motivi del viaggio. Sorpresi che Barr avesse aggirato tutti i protocolli in uso quando incontrò i vertici dei servizi segreti italiani, ma quelli attuali e nessuno di quelli in carica all’epoca. Incontri inusuali, sottolineano i media Usa, che mettono a rischio la fiducia tra servizi segreti col sospetto di condividere informazioni a uso di politica interna.
In questa storia di spie e quasi spie (gli americani che vanno a sentire il burocratico Dis), rispunta fuori il docente della Link Campus University romana, il maltese Joseph Mifsud, considerato addirittura il motore del ‘Russiagate’. A fondare e dirigere di fatto la strana accademia privata, un noto personaggio del passato remoto d’Italia, Vincenzo Scotti, anni 86, il fu ‘Tarzan della Dc’ (ricorda Bonini su Repubblica). «Lui e la sua Link Campus University al centro di un’esposizione planetaria». Esagerazione stampa. Il datato ma sempre lucido ex ministro su Joseph Mifsud, «Parlava troppo per essere una spia». «Mifsud, uomo con una importante rete di relazioni, a cominciare da un’amicizia personale con Boris Johnson, e che è finito in questa storia per superficialità e credo una certa dose di millanteria».
Per la serie degli ex mai morti, ospite a ‘Mezz’ora in più’ sul Russiagate, Matteo Renzi dà un consiglio non richiesto a Giuseppe Conte: «Riferisca al Copasir sull’incontro tra i nostri 007 e Barr, e ceda la delega sui servizi a un professionista», insiste il leader di ‘Italia viva’. Con un dubbio finale: «Perché il ministro della Giustizia americano è venuto segretamente a incontrare il capo del Dis». Perché il Dis sbandierato, sarebbe da chiedersi, apparato di puro coordinamento, forse a nascondere altri incontri con vere spie? E in questo minestrone di spie o quasi spie, finisce anche Mr. Papadopoulos, l’ex consulente del presidente Trump, coinvolto nell’inchiesta del procuratore Mueller. Greco americano sposato con una italiana che chiamerebbe in causa Obama assieme all’allora suo amico italiano Matteo.