La storia profonda è storia collettiva

Storia misura del mondo

Mi salta all’occhio il titolo di un piccolo libro di Fernand Braudel, Storia misura del mondo. Sulla copertina una rosa dei venti bellissima, che racconta i trentadue venti. Quelli che più o meno tutti conosciamo, quelli per i contadini d’un tempo, quelli dei marinai, quelli delicati e secchi, quelli caldi e umidi.

Impossibile non prenderlo in mano, non sfogliarne le pagine. Un vento buono da ovest, come si chiamerà? Forse Zefiro? E un sentimento pieno di riconoscenza per un uomo che ha scritto uno dei libri più importanti della storia, Il Mediterraneo, duranti gli anni passati in un campo di concentramento a Magonza e Lubecca, tra il 1940 e il 1945.

Storia misura del mondo ha una sua straordinarietà: si tratta di venti conferenze tenute in prigionia agli altri prigionieri, nel 1941 a Magonza, riprese e messe per iscritto tra il 1943 e 1944 a Lubecca con l’aiuto di uno degli ascoltatori. Per spiegare il senso del libro, nella quarta di copertina c’è scritto: Una grande lezione sul senso della storia dedicata a un pubblico di uomini comuni, cui Braudel si rivolge con una straordinaria capacità di evocare le dinamiche generali e di lungo periodo.

Una storia profonda. Storia degli uomini, vista nelle sue realtà collettive, nell’evoluzione lenta delle strutture. Una storia profonda. E uno storico, secondo la definizione di Lucien Febvre, che non è chi sa, ma è chi cerca.

Quanta grandezza, quanta bellezza e meraviglia in poche righe. Un uomo in un campo di concentramento che tiene un ciclo di lezioni agli altri reclusi, e lo fa con lucidità e dolcezza. Con quella gentilezza che tiene viva la fede nell’umanità, proprio quando intorno tutto sembra venir meno. Mentre tutto sembrava perduto.

“Incandescenti gli eventi ci assalgono, ci avvolgono da ogni parte e sembrano tessere al momento, valga quel che valga, la storia che si sta compiendo. Mai erano stati così incalzanti e così minacciosi: gli anni felici sono senza storia, cioè senza avvenimenti incombenti, ma noi non viviamo più anni felici…”

Un libro bello, da leggere per capire. Non quello che accadeva in quel periodo particolare: quello che viviamo adesso, gli strumenti che possediamo per decifrare nel bombardamento di informazioni un filo di interpretazione possibile, oppure quelli che non possediamo e che fingiamo di avere con una certezza assoluta che somiglia alla superstizione. Mentre il caso svolge il suo ruolo maestoso e sovrano. E immaginiamo la storia che viviamo come intensi momenti di strette di mano, di foto di gruppo al G8, di rappresentazione teatrale del potere, di pochi che contano e che decidono per i tanti che non esistono se non come numero democraticamente votato al corpo elettorale, al sondaggio, all’inazione.

Braudel ci spiega che la storia è storia della mentalità, è corale, è azione collettiva, è vita degli uomini non celebrazione di potere dei leader, dei capi e capetti, di chi tira le fila. E i poteri sono provvisori, come i giudizi, come ciò che oggi ci sembra ineluttabile. E sfogliando queste pagine penso con un sorriso alle miserie dei leader che ci appaiono oggi giganteschi e sono un niente destinato a scomparire in un soffio nelle pieghe della storia. Alzare la testa, guardare lontano, riprendere a tessere pensiero. Non farsi ingarbugliare nello spezzatino delle cose inutili, nelle informazioni che si accavallano e che non ci dicono niente di chi siamo e di che cosa dobbiamo fare per credere nell’utopia e renderla concreta, nel prendere l’impossibile come concetto da superare. Per essere vivi.

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