Sulla politica estera di Donald Trump si è ormai detto tutto e il contrario di tutto. Il problema principale, com’è noto, è capire se una politica estera trumpiana esista per davvero, o se – come è assai più probabile – le mosse dell’attuale presidente in quest’ambito così importante siano dettate soltanto da una spasmodica volontà di autopromozione.
Prendiamo per esempio il caso Conte-Salvini. Tutti erano convinti che il leader della Lega fosse, tra i politici italiani, quello più vicino al cuore del tycoon, e l’accoglienza ricevuta durante la sua visita a Washington sembrava confermarlo.
Poi è arrivato l’ormai celebre tweet di endorsement per Giuseppe Conte, che ha sorpreso solo coloro che credevano, per l’appunto, a un Trump fedele a schemi ideologici ultraconservatori e sovranisti. La verità è che il presidente non si cura affatto dell’ideologia (ammesso che tale parola abbia per lui un significato).
In questo momento il governo PD-M5S gli è utile (come prima gli sembrava utile l’alleanza M5S-Lega), e quindi Salvini e la Lega possono essere dimenticati senza colpo ferire, così come il progetto di un’Europa sovranista con Trump quale nume tutelare.
In realtà Donald Trump non vuole essere il nume tutelare di nessuno. Gli importa soltanto essere rieletto ed è pronto pure a smentire posizioni assunte in passato per raggiungere questo obiettivo, che ora appare meno agevole di quanto fosse in precedenza. E, se lo conseguirà, sarà soltanto per merito della debolezza del partito democratico Usa e delle sue tante divisioni interne.
Nel frattempo è arrivato un altro tweet che ha rapidamente fatto il giro del mondo, quello che annunciava il licenziamento in tronco del superfalco John Bolton, dall’anno scorso Consigliere per la sicurezza nazionale. Si tratta del terzo Consigliere, dopo Michael Flynn e Herbert McMaster, a subire questa sorte.
Se c’era qualcuno che sembrava in perfetta sintonia con il tycoon, questi era proprio Bolton, un ultraconservatore e superfalco a tutto tondo. Il fatto è che per lui tali definizioni vanno benissimo e riflettono in pieno la sua visione del mondo. Ma, contrariamente a quanto pensano i più, non vanno affatto bene per Trump.
Prima filo-democratico e sostenitore – anche finanziario – dei Clinton, poi repubblicano anomalo, il tycoon una sua visione del mondo non ce l’ha, a meno di identificarla con lo slogan elettorale “America first”. Gli interessano i successi diplomatici clamorosi, finora conseguiti soltanto in parte mediante gli storici incontri con Kim Jong-un, mai però finalizzati in modo pieno.
Gli interesserebbe pure un successo con la leadership iraniana, uno dei motivi di contrasto con Bolton che voleva invece bombardare l’Iran dopo l’abbattimento di un drone Usa. E si noti, a questo proposito, che spesso Trump riesce addirittura a farsi passare per pacifista, lasciando ai suoi collaboratori – o ex tali – la scomoda etichetta di guerrafondaio.
Donald Trump non è pacifista né guerrafondaio, e indossa di volta in volta l’abito che più gli conviene come un novello Arlecchino. Parimenti può appoggiare i democratici se ciò gli è utile, oppure trasformarsi in repubblicano conservatore per essere eletto. Tra i lamenti dell’establishment del partito che fu di Eisenhower e di Reagan, che giustamente lo vede come un estraneo.
Credo basterà poco per sapere il nome del prossimo licenziato con un tweet, forse un altro che non approva la sua estrema spregiudicatezza. E’ comunque chiaro che, ora, gli Stati Uniti una vera politica estera non l’hanno. Esiste solo la strategia personale di Donald Trump per ottenere il secondo mandato presidenziale.