
Ieri il parlamento è stato alla fine sospeso fino al prossimo 14 ottobre. Boris Johnson impone la sua furberia che aveva fatto gridare al colpo di stato, vince una battaglia, ma perde la guerra. Seconda bocciatura sulla mozione presentata da Boris Johnson per la convocazione di elezioni anticipate il 15 ottobre. Un no ai trucchi possibili di BoJo per arrivare alla Brexit arrabbiata progettata col suo amico Donald Trump. Di fatto, la richiesta al premier l’assicurazione che non vi sia una Brexit ‘no deal’, nel rispetto della legge pro-rinvio appena varata. Johnson rabbioso che si scopre nell’angolo, costretto tra due alternative per lui perdenti: trattare per davvero con Bruxelles con la probabile necessità di chiedere un altro umiliante rinvio alle Exit, o le sue dimissioni da premier con resa dei conti finale in casa Tory e tra i brexiters a rischio pentimento. E se elezioni anticipate si imporranno, sarà a scadenza Brexit almeno definita. Si parla di novembre. E un possibile referendum bis, Europa si Europa no, a verifica della volontà popolare dopo il caos vissuto.
Caos politico su tutti i fronti, anche nell’ondivago partito laburista di Jeremy Corbyn, che dopo molti tentennamenti, si trova di fatto ad essere il leader del fronte filo-remain. «L’appassionante sfacelo della premiership Johnson continua dunque in moto circolare, anche se forse non ancora per molto», scrive da Londra Leonardo Clausi. «Al momento il primo ministro, la cui solidità politica fa sembrare le sconfitte di Theresa May come un vittorioso tour de force, rischia l’impeachment o perfino la galera qualora si rifiutasse, come ha più volte sottolineato, di richiedere la proroga della data di uscita, tuttora fissata al 31 ottobre, che ora è legalmente obbligato a richiedere». Privo di una maggioranza e dopo una raffica di dimissioni dal partito aggressivo che si era inventato a sua immagine e somiglianza, compreso suo fratello Jo, la premiership di Boris del clan Johnson rischia di essere la più breve della storia del Regno Unito.