La poesia che serve per celebrare la comunità

La poesia torna spesso nel mio modo di leggere il mondo. Che cosa desueta, diranno i vessilliferi delle certezze assolute del tempo. Che insolenza, penseranno i poeti. Che perdita di tempo, con quello che accade nel mondo.
Vagando tra Chlebnikov, Odisseas Elitis, Sambati, Ghiannis Ritsos, Giovanni Lindo Ferretti e Italo Valent ho trovato più vita, più vita reale che in qualunque altro luogo. Precisione e sincerità, apertura all’incedere dei mondi, per coglierne sfumature e sentirsi nel cuore come un sottile fumo. Respiro. Visione, terra. Bellezza.

La poesia non è fatta per glorificare il poeta, essa esiste per celebrare la comunità. Già, questa frase mi insegue da anni. Da quando, collaborando con Ilaria Drago e Lello Voce, sull’utopia concreta di Tribù Astratte e tagliando la realtà col coltello affilato della verità, per Genova 2001, viaggiavamo alla scoperta del poetry slam, dell’azione poetica di Nanni Balestrini, dei nuyoricans. Questa frase è la base del pensiero di Marc Kelly Smith…


Scrive Lello Voce: “…la poesia è parte ed elemento della comunità, che è ad essa necessaria, direi indispensabile, e che, se la sua voce risuona con efficacia e forza, ciò avviene sempre perché – anche nei casi più privati – essa è voce della polis, interesse comune, attività e disciplina ’politica’ per antonomasia; che la poesia, insomma, come ogni altra arte, è un diritto delle comunità, oggi più che mai, figli come siamo di un’epoca che non si è limitata ad inquinare radicalmente il nostro ecosistema, ma che anzi si è preoccupata, con pignoleria, di avvelenare anche il nostro immaginario e i nostri linguaggi”.

Così, liberi dal veleno del conformismo, penso all’espressione poetica come potenza e radice, come forma di memoria e di narrazione, di bellezza e consapevolezza. E mi viene in mente una cosa bellissima che ho colto in questi giorni. Il patriarca della famiglia Cugusi, Raffaele, che all’inizio degli anni Sessanta ha lasciato Fonni in Sardegna per un’avventura rivoluzionaria in Val d’Orcia, pastore e produttore di pecorini, padre di nove figli, lavoratore e imprenditore visionario, ha raccontato la sua vita attraverso la poesia. Il libro – privato, non acquistabile e questo dice tantissimo… – che la famiglia Cugusi ha dedicato alla propria storia di immigrazione in Toscana, dalle radici sarde alle generazioni successive nate tra Pienza e Montepulciano, si chiude con la storia dell’esistenza di Raffaele in versi. Il viaggio, i figli, la terra, il lavoro, la moglie perduta. Emozionante e significativo.

La narrazione poetica di Raffaele Cugusi è la cosa più vicina all’idea della poesia che non nasce per glorificare il poeta, ma per celebrare la comunità. Ricordiamocene. Lui per questo ha verseggiato. E la sua famiglia per questo ha messo insieme il libro, di carta, per tramandare e rendere fertile la memoria, la meraviglia delle piccole cose che lastricano la nostra strada.

E noi portiamo avanti questa sfida e questa bellezza, non lasciando nelle mani degli aridi di mezza età – quelli che leggono di meno in assoluto, meno dei propri figli – oltre che il dominio sull’economia e sulla politica, anche l’idea penosa che portano avanti della cultura. Un’idea che non riescono mai a non collegare al vantaggio privato, al profitto, al turismo e ad altre amenità che niente hanno a che fare con la nostra storia e con la cultura che rende magnifico il territorio in cui agiamo e viviamo.


Oggi ringraziamo la famiglia Cugusi che ha scelto la carta e la narrazione per mettere nel terreno il seme della memoria. E la poesia di Raffaele per tramandare e mettere insieme la comunità.

PS
L’immagine di copertina ritrae dettagli di due opere di Paolo Naldi



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