Sul confine leggero del tempo (anche quando non sembra)

Non che non abbia gli anticorpi per fronteggiare la cattiveria umana e la stupidità. Sono cresciuto in quello spazio vuoto, assurdo e poetico, in cui il cemento strappava radici e boschi, nel mito della città che si estende, delle borgate come riferimento culturale e politico. Sono cresciuto sul limes: da una parte la tradizione, la fede nel passato che costruisce un futuro migliore, la rabbia operaia, la fatica e le mani forti dei cavatori, dall’altra il futuro scintillante, la fòrmica e la cortina sulle pareti delle case, il nuovo concetto di decoro a rendere il progresso definitivo. Necessario. Etimologicamente che non cede, o anche che non è.

La dialettica, in quel confine, è la sopravvivenza. La sapienza si nutre di tante fonti meravigliose e la ricerca della bellezza zigzaga tra radici profonde e culture senza tempo. Sguardi opachi e mani pesanti. Ricordo contadini che avevano a casa quadri bellissimi, che sapevano i classici a memoria. Operai delle cave capaci di poesia, di verseggiare davanti a un bianchetto. Rudi e rivoluzionari: la riscossa nasce dalla conoscenza, mi diceva un vecchio infermiere del manicomio (all’epoca si chiamava così) di Colle Cesarano. Comprava ogni giorno due copie de l’Unità, una la lasciava nella sala infermieri perché anche chi non se la poteva permettere (o non se la voleva permettere) potesse leggere.

Fin quando l’equilibrio è rimasto delicato, fin quando il mondo era quello di “Un anno a Pietralata” di Albino Bernardini, il terreno è stato fertile. Le culture agivano. Le praterie rinsecchite dal sole senza alberi, sfregate dal vento dell’estate e delle vacanze, erano tutto quello che si poteva avere per vivere. Erano la giungla, il deserto, la città e il senso di appartenenza a un mondo magico.

Qualche anno dopo il confine è crollato. Ragionevolmente – ci sono sempre ragioni superiori di sviluppo e modernità – le praterie hanno lasciato spazio alle costruzioni, i laghetti alle fondamenta sempre più profonde e instabili dei palazzoni indegni, le villette a schiera invece dei boschi. Il profitto, la rapina, il depredare senza restituzione il codice unico per rendere moderno il limes, per abolire le differenze sottili, la gentilezza selvatica, la sapienza non accademica. Le serate in osteria tra poeti, artisti e cavatori.

Hanno prevalso i peggiori. E si vede. Hanno prevalso le spinte dei paraculi, degli arraffoni, dei senza scrupoli. Un paradiso di sfumature e bellezza si è trasformato in pochi decenni in un niente dove esercitarsi all’obbedienza. Un canto magnifico di Giovanni Lindo Ferretti coglie esattamente questo passaggio epocale. La trasformazione da libero a schiavo, attraverso la farneticante visione moderna della libertà come schiavitù.

“Cittadino è diventato sinonimo di uomo libero, depositario di diritti inalienabili, proteso a una realizzazione disincarnata e massificata – produttore consumatore utente – in uno spazio tecnologico in cui la connessione riduce il tempo a una perenne consecuzione di immediatezza, sradicato da ogni contesto storico e geografico. A sé”.

Per questo, quando con leggerezza esprimo spirito critico non mi spavento di fronte alle reazioni scomposte. Vedo nubi all’orizzonte nella terra in cui vivo adesso e che è ancora in equilibrio, limes dolce in cui lo scambio è ancora fertile. Sento le voci crude di chi si infastidisce di fronte a troppe sfumature. Percepisco il muso duro del tempo, quello spirito gregario talmente incarnato da rendere ognuno milite di una guerra che non ci appartiene. Sorrido, metto la mia pietra nel muretto a secco del tempo, per costruire un’ipotesi diversa da quella di massa che prevede sempre e solamente solo cemento e obbedienza. E disneyland orribili.

Il coraggio è uno solo, nella coerenza di quello che pensiamo e facciamo. Nel nostro piccolo. Insieme con gli altri, se possibile. Ricordando a tutti noi che rurale è meglio di cittadino. Che il conformismo che ci arriva dalle certezze assolute è figlio degli interessi supremi di pochi, a scapito (per forza di cose) del bene comune. Che perdere le radici, la bellezza e l’incanto è un attimo. Se prevale la visione più ovvia e mediatica, prevale la scomparsa delle differenze, la perdita dell’insieme delle piccole meraviglie che rendono unico questo mondo.

Ps Nella copertina, dettaglio di una immagine di Dominique Bollinger

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