Tra Cina che piace e Cina da paura, chi sta vincendo a Hong Kong?

Chi sta vincendo ad Hong Kong?

Tra la Cina che piace e la Cina che fa paura, chi sta vincendo a Hong Kong?
Chi sta vincendo, a Hong Kong, dopo le imponenti manifestazioni dei giorni scorsi? Verrebbe spontaneo dire che hanno vinto studenti e intellettuali, insieme alle centinaia di migliaia di persone scese in strada per appoggiare le loro rivendicazioni. Eppure la risposta non è così semplice.
E’ pur vero che la governatrice filocinese Carrie Lam si è scusata pubblicamente per le violenze della polizia e ha addirittura offerto le sue dimissioni (che, a quanto pare, anche Pechino ora vedrebbe con favore). Si noti però che la suddetta Carrie Lam si chiama in realtà Cheng Yuet-ngor. Come tanti hongkonghesi – filo-cinesi inclusi – ha anglicizzato il proprio nome, a riprova di quanto resti profonda in loco l’influenza britannica.

La governatrice di Hong Kong

Sun Tzu e l’arte delle guerra

La città è senza dubbio per la dirigenza cinese un caso assai spinoso, ma da qui a dire che i manifestanti hanno vinto ce ne corre. In realtà Pechino, che proprio attraverso Carrie Lam aveva cercato di accelerare il processo di assimilazione, venendo meno all’impegno di conservare per 50 anni (fino al 2047) il suo status speciale, può anche permettersi di attendere.
La pazienza, da praticarsi quando non si può ottenere in breve tempo il risultato voluto, è esaltata tanto nei testi di Confucio quanto nel celebre trattato “L’arte della guerra”, attribuito a Sun Tzu. Dopo il tentativo maoista di cancellare il ricchissimo passato del Paese, negli ultimi decenni si è verificato un grande ritorno alla tradizione. L’ortodossia marxista-leninista è mantenuta sul piano ufficiale, ma lo studio dei classici è incoraggiato senza remore.

La superpotenza può attendere?

La domanda da porre è la seguente: fino a quando il governo centrale può permettersi di attendere? Sicuramente non a tempo indefinito, ed è facile capire il perché. L’onnipotente e onnipresente Partito comunista, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si è posto l’obiettivo di legittimare il suo potere permanente in due modi.
In primo luogo mettendo in evidenza che, sotto la sua guida, il Paese ha conosciuto un enorme successo economico, tanto da sfidare gli stessi Stati Uniti in molti settori chiave dell’economia, della finanza e della tecnologia. In secondo luogo facendo notare che, sempre sotto la sua guida, la Cina è diventata la seconda superpotenza globale anche per quanto riguarda la politica e le relazioni internazionali.

Tra benessere e democrazia

Sono tesi difficilmente confutabili, e proprio per questo i dirigenti di Pechino non danno peso alle accuse di mancanza di democrazia e libertà. A loro avviso tali mancanze sono più che bilanciate dagli spettacolari successi economici e, soprattutto, da una stabilità che in Occidente manca. Vanno quindi dritti per la loro strada, sicuri di poter dominare la dissidenza grazie ai summenzionati successi.
Ed è proprio qui che Hong Kong entra in scena. La maggioranza dei suoi abitanti non sembra affatto intenzionata a barattare lo stato di diritto con la stabilità, e le elezioni libere con la ricchezza (peraltro già presente in modo cospicuo nella città-isola). Incuranti del precedente di Piazza Tienanmen, i cittadini della ex colonia inglese sono pure disposti a sostenere scontri duri con la polizia ed eventualmente con l’esercito pur di non perdere del tutto il loro status (che è unico nella Repubblica Popolare).

La pazienza di Confucio

Spetta quindi alla dirigenza di Pechino decidere quando il limite sarà giunto, quel limite oltre il quale la pazienza di Confucio e di Sun Tzu non sarà più praticabile. Ed è impossibile, al momento, fare previsioni plausibili, anche se la paura che il “contagio” democratico si estenda al resto del Paese induce a credere che il “redde rationem” possa giungere presto.
Si noti, infine, che il caso di Hong Kong è molto utile a Donald Trump e alla sua strategia che punta alla crisi della RPC mediante i dazi, diminuendo in modo drastico la capacità cinese di esportare i propri prodotti. Se tale strategia riuscisse, tuttavia, avremmo una crisi economica globale che finirebbe col danneggiare anche gli Usa.

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