Vivere sul margine, lungo la Francigena che cuce

Mi sporgo oltre il margine del foglio bianco per carpire quel quid che mi sfugge. Narrare o restare immobili nell’attesa, mentre la meraviglia cede il passo alle fatiche della vita, all’andirivieni dei discorsi, all’incrocio spietato degli sguardi, nel sentito dire che popola i nostri passi.
Prendere senso a piene mani dal cesto del buon senso o rallentare l’azione, renderla minuscola e silenziosa, cercando di dare un senso alla concretezza, una misura al vivere, al pensare, all’irripetibile che siamo in ogni battito di ciglia. Oppure monacali, nelle esitazioni che delimitano l’incertezza di quello che siamo e che ci sfugge.

La meraviglia è il miracolo. Come bellezza, parole essiccate dal silenzio, gli spazi magici in cui nessuno può entrare, senza farsi piccoli, senza ridursi in frammenti, senza celare fretta e lasciar crescere il muretto a secco dell’ascolto. Nel dono dell’incontro e nella poetica delle cose semplici.

Suonano le campane nel silenzio di questo paesino minuscolo. Si sentono voci di donne che chiamano i bambini. Risate antiche scorrono come un ruscello sulla pietra rigata dalle ombre sottili del sole di primavera.
Un anziano attraversa il mio spazio visivo con le mani raccolte dietro la schiena. Una simpatica signora, che arriva dalla Germania, fa splendere i suoi occhi celesti rugosi in una posa che somiglia a un miracolo di dolcezza. Suo marito la fotografa nell’incanto. Una, due, tre volte. Una ragazzina giapponese oscilla nel vento con il suo cappello gigante. A ogni passo, incerto, ferma lo sguardo per prendersi un ricordo. Come in un film, percorre la strada e deve esserci disegnato un tappeto rosso che non vedo.

Il tempo sembra immobile. Sembra antico e invece è semplicemente un altro tempo. Più delicato, lento e semplice, più profondo. La comunità è dolce e accogliente. La Francigena non taglia la valle, la cuce. Rammendo la scrittura, misura del filo e del segno. Questo verso di poesia mi balza nella mente, è di Marcello Sambati, poeta, artista del teatro, delicato signore che legge le sue parole con lentezza, facendole riempire di suono e senso. Di immagini evocative.
Anche lui è passato sulla via che cuce. Tessendo rapporti e parole, nell’incontro che è fertile tra persone che non s conoscono, tra mondi distanti. La poesia è confine. Il confine mette in contatto questi mondi distanti. Se non ci fosse questa separazione/rapporto non ci sarebbe poesia, non ci sarebbe sorpresa, non esisterebbe quella gioia che nasce dallo spiazzamento, dall’inatteso, dalla scoperta.

Il confine è il margine sul quale vogliamo vivere. Senza infastidire nessuno. Senza mettere in dubbio i patiti del centro, i fedeli del buon senso, gli apostoli del cinismo e della crudeltà che si fanno gioco di potere. Il margine serve per tenere aperto il contatto con quello che non conosciamo. Il miracolo, la meraviglia. Da vivere per lasciare che la ferita si rimargini. Che l’essere marginali da sempre produca un minimo di senso. Per dire o tacere.

Tutto questo annodare e sciogliere, questo ripercorrere cento volte la mappa dell’abitare come se ogni volta fosse diversa, è un esercizio spirituale, filosofico, del quale si può ampiamente fare a meno. Lo scrivo per chiarezza, parafrasando Wittgenstein. Si può vivere ugualmente senza mai porsi un dubbio, figuriamoci ragionando su margine e meraviglia.
Ma noi che siamo nati e cresciuti per essere sovversivi non temiamo la battaglia. Non abbiamo paura del conflitto e possiamo sinceramente porre la nostra esistenza al centro di un principio di marginalità e dolcezza. Sapendo che l’obbedienza è fatta di tanti segmenti di furia, di protesta e di azione politica o mediatica, di certezze assolute che appaiono scintillanti e rivoluzionarie e sono invece declinate in paure e consuetudini. Per un mondo che perde di vista le cose semplici e la dolcezza del vivere, la bellezza del buon vivere senza ingiustizie e crudeltà.

Concludo con due citazioni.
“Un enorme Mostro Mite si addensa come una nube tossica che assorbe tutto, rendendo irraggiungibile qualsiasi via di fuga. La realtà diventa una sostanza indistinta, sigillata nella miseria dell’esistente, dove le tracce del passato si perdono nell’impossibilità del futuro”. [cit. Marta e Simone Fana].
“Viviamo in una società di dormienti politici e isterici sociali. Di analfabeti di ritorno, ululanti sui social e nelle strade della movida, finti alternativi che obbedienti si sbracciano in un flash mob sociale e culturale di fasulla trasgressione e massima obbedienza. Di precari che s’illudono di non esserlo, o di esserlo per scelta creativa, che fanno salti mortali per far felice l’addestratore. Per dimostrare che la povertà, l’ignoranza, l’ingiustizia sociale, l’alienazione non potranno mai fermare la spinta incessante all’obbedienza, al conformismo vestito dalla luccicante teoria dell’uno su mille ce la fa. Fase post-ideologica? Macché, è la stagione della spietatezza che ci sorride e ci rende ignorantissimi saputelli schiavi: questa è l’ideologia del tempo. Tocca a noi, più o meno giovani, sovvertire questa realtà indiscutibile”. [autocitazione su un pezzo scritto il 2 maggio del 2016].

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