
Bombe Nato sulla Jugoslavia, venti anni fa il cessate il fuoco
Settantanove giorni di bombardamenti Nato sulla piccola Jugoslavia dell’allora Milosevic, Serbia + Kosovo, e Montenegro. ‘Guerra umanitaria’, ossimoro anche politico. Noi oggi vogliamo limitarci a ‘raccontini’ della fine di quella disgraziata pagina di storia europea. A Belgrado, centro del bersaglio, eravamo un certo numero di giornalisti occidentali, ma non tantissimi. Niente elenchi per evitare dimenticanze.
Chi chiedeva ad entrare e veniva respinto, che c’era e se ne andava per qualche ragione, chi arrivava col trucco di qualche visita ‘politica’ e quando lo beccavano veniva accompagnato in malo modo al confine. Chi raccontava da fuori la guerra vista dalla parte dei ‘buoni’.
Avendo angosciato il pubblico di tutti i canali Rai con cronache Tv 24 su 24, quasi peggio delle bombe Nato, Ennio Remondino si astiene. La parola scritta oggi, a due amici e firme giornalistiche di rilievo (molto altre ce ne sarebbero, ma il problema è quello della disponibilità dei loro scritti): Massimo Nava, Corriere della Sera, che le bombe Nato se l’era prese per primo dal Kosovo, salvo poi essere cacciato fuori dai serbi comprensibilmente arrabbiati. Noi ne abbiamo guadagnato un bel libro e adesso, 20 anni dopo, questo racconto preso dal Corriere della Sera.
E poi Renato Caprile, inviato speciale di Repubblica, balcanonologo di antica data, schierato sul fronte sud della guerra a raccontare dalla Macedonia di kosovari in fuga e alla fine, tra i pochi testimoni degli accordi di Kumanovo firmati il 10 giugno del 1999, 20 anni esatti fa, che misero fine ai bombardamenti Nato, ma senza voler esagerare nell’uso della parola pace, che ancora aspetta.
e.r.
di Massimo Nava
All’alba del 10 giugno 1999, il battaglione gurkha oltrepassava il confine del Kosovo. I soldati delle ex colonie britanniche, erano l’avanguardia delle truppe Nato. Nella notte, erano arrivati a Pristina i primi reparti russi, per evitare un confronto diretto con le truppe serbe in ritirata. Nella vallata al confine della Macedonia, decine di migliaia di profughi kosovari speravano di rientrare nella loro terra e ricostruire case distrutte dalle bombe della NATO e dalla repressione serba. Cominciava il controesodo dei serbi del Kosovo per sfuggire a prevedibili vendette, ripetendo cosí il circolo infernale delle guerre balcaniche in cui i serbi hanno recitato la parte del carnefice e della vittima. Carichi di masserie, ammassati in pullman e su carretti, si lasciavano alle spalle un deserto di macerie e i loro monasteri, la culla della religiosità ortodossa e della storia serba, usati come clave dal presidente Slobodan Milosevic che sui germi del nazionalismo populista avrebbe costruito il suo decennale potere, fino alla disfatta finale.
Questo era il Kosovo alla fine di 78 giorni di bombardamenti che avevano piegato la resistenza di Milosevic e legittimato il sogno indipendentista dei kosovari, la minoranza albanese/musulmana repressa e discriminata dai tempi della Jugoslavia di Tito. Un sogno realizzato prima con la resistenza pacifica di un personaggio carismatico, Ibrahim Rugova, e poi perseguito con attentati e guerriglia fino alla formazione di un esercito di guerriglieri, l’Uck, definito, a fasi alterne e seconda dei punti di vista, di liberazione o terroristico.
L’ambiguità di giudizio é proseguita nel corso degli anni, come si evince dalle biografie di alcuni ufficiali, accusati di crimini di guerra e al tempo stesso ai vertici dello Stato kosovaro dopo la proclamazione dell’indipendenza.
Sono passati vent’anni. Il Kosovo é rimasto un limbo instabile, protetto e sostenuto da organizzazioni internazionali, crocevia di traffici criminali e corridoio d‘ immigrazione clandestina. I monasteri sono sorvegliati e circondati. La minoranza serba, sempre piú esigua, si é rintanata nell’enclave di Mitrovica, la porzione al confine con la Serbia. Gli albanesi del Kosovo sono rimasti i paria d’Europa. Hanno conquistato con sofferenze e migliaia di morti il loro Stato riconosciuto dalla comunità internazionale, ma si sono ritagliati un futuro di precarietà.
Per serbi e kosovari l’unica prospettiva sarebbe l’avvicinamento alla Ue, ma soltanto a patto di una definitiva composizione del conflitto che appare ancora lontana. Al contrario, ogni volta che si prospettano accordi di collaborazione sia pure parziali, quantomeno per garantire flussi commerciali, governabilità e rispetto delle identità linguistiche ed etniche, puntualmente la tensione risale, come sta avvenendo anche in questi giorni, nell’imminenza delle celebrazioni per la fine della guerra. Scontri, arresti, provocazioni, qualche omicidio eccellente, vendette si ripetono. E da vari punti di vista non potrebbe essere diversamente. Il potere a Belgrado si regge su delfini e politicanti riciclati dall’epoca di Milosevic (il presidente Vucic era il portavoce di Slobo), contestati dai giovani e dalla borghesia urbana ma ancora solidi quando si tratta di gestire affari e parlare alla pancia del Paese, lasciando che le micce dell’odio etnico continuino a bruciare. Il potere In Kosovo si regge sulla spartizione di affari e meriti di guerra e non fa decollare una giovane classe media che avrebbe titoli e qualità per costruire un futuro migliore.
i gruppi di potere parlano di scambi di territori con Belgrado, qualcuno rispolvera il vecchio sogno di annessione all’Albania.
Pristina, la capitale, è lo specchio di queste contraddizioni. Sulle macerie sono sorti grandi alberghi, un nuovo aeroporto, shopping center, palazzi residenziali. I flussi commerciali sono aperti a tutti, serbi compresi. Cultura popolare e istruzione continuano a trasmettere una storia che non può essere uguale per tutti. I giovani si affollano in bar e locali notturni, popolando una malinconica movida in attesa di un visto per l’Europa. Là normalità non appartiene a questa generazione, ma ci sta provando, specularmente ai coetanei di Belgrado, stanchi di propaganda e disgustati dal potere.
Nella storia di questi vent’anni in Kosovo si specchia una storia universale che, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, ha visto prevalere il principio dell’autodeterminazione dei popoli sul diritto e sulla sovranità degli Stati. Dalla Ex Jugoslavia a Timor Est (giusto pochi mesi dopo il Kosovo), dalle Repubbliche ex sovietiche al Sud Sudan, le minoranze hanno fatto valere omogeneità etnica, linguistica, religiosa, anche se poi il principio dell’autoderminazione non si è fatto strada in modo coerente o compatibile con gli standard di democrazia del contesto. Improponibile in Catalogna, represso in Tibet, applicato in Crimea con ritorsioni e sanzioni contro Mosca, terreno di nuovi conflitti in Sudan. La comunità internazionale ha provato a codificarne l’applicazione persino con le armi, in relazione appunto al livello di repressione di una minoranza. Il “bombardamento umanitario” ha incentivato speranze, ma spesso la scorciatoia militare ha provocato disastri. L’ultimo esempio è la Libia. Per questo, il Kosovo é attualissima materia di studio. In alternativa a processi democratici inevitabilmente più lenti, vale ancora una battuta balcanica, “la peggiore delle soluzioni, escludendo tutte le altre”.
di Renato Caprile
Repubblica, 10 giugno 1999 – È fatta. È stata tutt’ altro che facile, ma è fatta. Nato e serbi hanno firmato l’ armistizio. Dopo settantanove giorni di bombe, di morti, di centinaia di migliaia di profughi finalmente irrompe la pace. Alle 21.49 di ieri, al termine di una lunga, convulsa giornata di trattative lo storico annuncio. A farlo era il generale britannico capo della “Kfor”, Mike Jackson che usciva dal tendone mimetico del campo francese di Kumanovo, si avvicinava al microfono, inforcava gli occhialini e leggeva con voce grave, senza enfasi, i suoi appunti. “L’ accordo tecnico-militare per il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo e per l’entrata della forza internazionale di sicurezza è stato raggiunto: questa intesa sancisce la fine dei bombardamenti, che riprenderanno se i serbi non rispetteranno l’accordo”.
In 11 giorni i serbi dovranno liberare tutto il Kosovo, in 24 ore la Nato sarà già dentro la provincia.
Le ultime battute del suo stringato discorso, Jackson le dedicava agli albanesi: “Dovranno aver pazienza – diceva – perché il rientro non sarà né facile né immediato”. Tutto qui. Jackson si scusava di non avere tempo per le domande dei giornalisti e si allontanava. Poi toccava al capo degli ex nemici, al generale Svetozar Marjanovic di essere inquadrato dalle telecamere di tutto il mondo. Appariva anche lui stanco, il comandante della Terza armata jugoslava che i croati accusano di essere un criminale di guerra. Parlava in serbo Marjanovic. C’era orgoglio e retorica nelle sue parole, ma la faccia era quella di un soldato costretto alla resa. “La guerra è finita – diceva Marjanovic – ha vinto la politica della pace, la politica della Jugoslavia e di Milosevic”.
La storia e forse anche la cronaca nei prossimi giorni ci racconteranno come e perché sia andata così. Certo non è stato facile arrivare a questa firma nonostante si dicesse da giorni che tutto era pronto, che i problemi tecnico- militari erano stati risolti. Eppure si continuava a non firmare, saltava sempre qualcosa fuori all’ ultimo momento. E l’ attesa cresceva fuori al tendone mimetico a Kumanovo, dove ormai da giorni erano riuniti tra interruzioni, consultazioni, pause-pranzo ed altro i generali della Nato e i loro parigrado jugoslavi per definire tempi e modi dell’ operazione Kosovo.
Il “giorno della pace” iniziava presto con l’ ennesima riunione nella base di Kumovo che sembrava a un certo punto una stazione ferroviaria tra arrivi e partenze improvvise. Partiva per primo Vujovic, arrivava poi Marjanovic, si allontanava quindi Stefanovic, si aspettava la fumata bianca da un momento all’ altro ma c’ era sempre un intoppo, un’ interruzione, un problema dell’ ultimo minuto. Fino a quando nel pomeriggio, intorno alle 17, qualcosa faceva pensare a una rottura definitiva. A quell’ora infatti Marjanovic e Vujovic venivano fuori e si infilavano nella loro Mercedes diretti oltre il confine. Poco più tardi uno speaker della Nato annunciava: “La trattativa è temporaneamente sospesa, gli jugoslavi sono tornati a Belgrado per consultazioni. I lavori riprenderanno nella mattinata di domani. Ma tempo un’ ora e mezza e c’ era un altro colpo di scena: Marjanovic e Vujovic tornavano indietro e si riprendeva a trattare.
A dimostrazione che a Kumanovo non si parlava più di aspetti militari e arrivava la notizia che altri ufficiali – serbi e alleati – stavano incontrandosi a Blace, quelli sì per definire gli aspetti tecnici dell’ armistizio. A Kumanovo invece si affrontavano solo nodi politici. Come il ruolo dell’ Uck e la sincronizzazione dei tempi del ritiro dei serbi e dell’ ingresso degli alleati. Due facce della stessa medaglia. Belgrado insisteva: il ritiro deve essere contestuale, altrimenti l’ esercito di liberazione del Kosovo ne approfitterà. E in tutto questo sul terreno centinaia di poliziotti serbi – la notizia la dava l’ agenzia jugoslava Tanjug – iniziavano a ripiegare dal Kosovo. Un gesto di buona volontà.
Ma alla fine si comprendeva che l’ impasse che da giorni bloccava le due delegazioni era legata soprattutto al colore del cappello che avrebbero avuto i soldati della “KFor”. Arrendersi a loro avrebbe addolcito il sapore della sconfitta. E così i serbi si impuntavano: firmeremo un secondo dopo la risoluzione dell’ Onu. Che era come dire mai. Visto che il Consiglio di Sicurezza diceva esattamente il contrario. Alla fine prevaleva la ragione e a un quarto alle 22, Jackson, Marjanovic e Stefanovic apponevano la loro firma sul documento.