India e non solo, identità nazionale più della storia e di Gandhi e Nehru
Dopo aver appreso i risultati delle recenti – e interminabili – elezioni indiane, con la squillante vittoria della coalizione guidata dal premier uscente Narendra Modi, viene spontaneo pensare che il Mahatma Gandhi non è più di casa nel grande Paese asiatico che contribuì a creare. E nemmeno lo è il Pandit Nehru, primo ministro dell’indipendenza nonché uno dei leader per molti anni dei Paesi non allineati.
La notizia non desta in fondo grande meraviglia perché la coalizione nazionalista di Modi era data in vantaggio rispetto al vecchio Partito del Congresso capeggiato da Rahul Gandhi, figlio di Rajiv e Sonia Gandhi. Tuttavia non con questi numeri, giacché i nazional-populisti sono addirittura riusciti a conquistare la maggioranza assoluta nella Camera bassa del Parlamento di New Dehli, mentre il risultato del Partito del Congresso è stato largamente inferiore alle attese.
Come sta accadendo quasi ovunque nel mondo, i partiti tradizionali cedono il passo a nuove formazioni, spesso nate in tempi relativamente recenti. Al contempo sbiadisce il ricordo di figure carismatiche che hanno dominato la storia contemporanea. Il subcontinente indiano non fa eccezione.
A Gandhi ora rimproverano di aver progettato un’India, come si dice oggi, “inclusiva”, senza distinzioni di casta o di religione. Il Mahatma non faceva differenza tra indù, musulmani e cristiani. Per lui le religioni dovevano convivere pacificamente all’interno di uno Stato non confessionale, con tutti i cittadini trattati alla pari.
Anche per questo capita di sentir dire ai nazionalisti indiani odierni che il Pakistan è nato con la sua benedizione, e che proprio lo stesso Gandhi può essere considerato padre del Pakistan più che dell’India. Mentre in realtà il Mahatma si sforzava solo di evitare la resa dei conti tra indù e musulmani, con l’enorme bagno di sangue che ne conseguì.
Ovviamente non si salva neppure il Pandit Nehru, adesso accusato di eccessivo “laicismo” poiché, ancor più di Gandhi, non voleva che le questioni religiose interferissero nella vita politica del Paese. A Nehru rimproverano inoltre la grande importanza attribuita alla democrazia rappresentativa occidentale (e soprattutto di stile britannico: non dimentichiamo che fino al 1947 l’India era colonia inglese). Tale democrazia viene da molti vista come prodotto “importato” ed estraneo allo spirito indiano, anche se in fondo ha consentito la vittoria di Modi e dei nazionalisti.
Più passa il tempo e più risulta chiaro che l’intuizione di Samuel Huntington, secondo il quale dopo la fine della Guerra Fredda le principali fonti dei conflitti sarebbero diventate le identità nazionali e religiose, risulta plausibile. Con dei distinguo, ovviamente, ma corretta nella sostanza.
E qui occorre fare considerazioni che possono anche risultare impopolari. Posto che le religioni non sono affatto poco importanti come molti pensavano nel secolo corso, la mappa dei conflitti mostra che quasi sempre è l’estremismo islamico a innescare la miccia. Il suo rifiuto dei valori altrui finisce col rendere fanatici non solo gli indù, ma addirittura i buddisti.
Questo problema viene percepito a livello di senso comune, ma lo è assai meno da parte di molti leader politici (soprattutto di sinistra), in India, in Italia e altrove. E ciò spiega anche come nascono parecchi disastri elettorali. In sostanza, è come se una parte delle élites politiche si rifiutasse di guardare la realtà concreta per rifugiarsi in modelli di spiegazione obsoleti.