
Guerra commerciale Usa alla Cina, difesa di una egemonia a rischio
La guerra dei dazi anti-cinesi scatenata da Donald Trump, unitamente al bando dei prodotti Huawei negli Usa (che peraltro gli americani vorrebbero imporre a tutti i loro alleati, in particolare agli europei), lascia intendere che il conflitto in atto è ben più di una semplice guerra commerciale.
Il tycoon diventato presidente ha imboccato in tema di rapporti con la Cina una strada che, oltre a essere pericolosa, può anche condurre a esiti imprevedibili. Pure i suoi immediati predecessori si erano accorti che la Repubblica Popolare stava diventando un avversario pericoloso.
Trump, pur tra mille contraddizioni, ha però compreso che non di un semplice avversario si tratta, bensì di un competitor globale che ormai sfida gli Stati Uniti in ogni campo. Ivi incluso quello economico e finanziario, vale a dire la base sulla quale l’egemonia mondiale degli Usa è nata e si è sviluppata. E dove finora nessuno – è importante rammentarlo – aveva osato lanciare il guanto della sfida a Washington.
Ecco perché un eventuale accordo con Pechino sui dazi, pur essendo importante, rischia di non essere affatto decisivo. A Trump e alla sua amministrazione la pace commerciale interessa relativamente poco. Ciò che veramente importa, dal suo punto di vista, è il progetto non solo di “contenere” l’ascesa della Cina, ma anche di “ridimensionare” il gigante asiatico per dimostrare a tutti – e in particolare agli alleati – che le leve del comando globale stanno ancora alla Casa Bianca, e non già nella Città Proibita.
Il progetto è indubbiamente ambizioso, ma di assai difficile attuazione per parecchi motivi. Il primo e più importante è la grande interconnessione tra le economie delle due potenze. In altri termini Trump non può illudersi che bastino i dazi a bloccare la Cina, giacché quest’ultima può effettuare rappresaglie economiche e commerciali molto dolorose. E può anche, come extrema ratio, smettere di acquistare i buoni del tesoro con i quali un’America molto indebitata (più dell’Italia) finanzia il suo debito pubblico.
Siamo insomma di fronte a due lottatori che non possono realmente atterrare l’avversario poiché sanno che, in quel caso, finirebbero entrambi al tappeto. E’ uno degli effetti della globalizzazione, che i cinesi sono stati capaci di “leggere” con molto più anticipo rispetto agli americani.
D’altro canto Trump non può nemmeno rinunciare al proprio progetto di fondo, spesso confuso nelle sue parole ma chiarissimo nelle implicazioni pratiche. Non si tratta solo di “America first” come recitava il suo slogan elettorale di maggiore successo. L’intento centrale è ridare agli Usa il ruolo di potenza mondiale egemone quale era stata dal dopoguerra in avanti.
Gli americani si sono pure resi conto che ogni paragone con il periodo della Guerra Fredda non regge. L’Unione Sovietica era una grande rivale dal punto di vista ideologico e militare, ma non aveva affatto la forza di competere economicamente. Nikita Kruscev ci aveva provato, salvo accorgersi ben presto che l’Urss non aveva i mezzi per farlo.
Con la Cina il discorso è completamente diverso. E’ ancora la seconda potenza globale ma potrebbe, in tempi abbastanza brevi, diventare la prima anche grazie alla stabilità politica e alla preponderanza demografica. Di qui il tentativo – per così dire – di soffocare il bimbo nella culla prima che cresca troppo.
L’amministrazione Trump non sembra tuttavia rendersi conto del fatto che un’eventuale crisi cinese di grandi proporzioni investirebbe inevitabilmente gli stessi Stati Uniti, portando a una situazione di caos globale. Ed è proprio questo a rendere così difficile il compito degli analisti che cercano di spiegare le mosse di Donald Trump in politica estera.
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