La misteriosa storia di lui e di lei davanti a una vetrina

Passano sulla strada due ragazzi giovani. Si fermano a guardare le lavagnette con sopra scritte frasi di Simone Weil o di Velimir Chlebnikov, alzano gli occhi sulla vetrina incastonata nel legno. Tra i riflessi del sole si vedono libri sul camminare, ultime uscite editoriali indipendenti, riviste internazionali di arte e fotografia… una bottiglia di vino Orcia Doc, un bicchiere pieno di terra, per ricordare che quel vino, che la bellezza di questi paesaggi viene dal rapporto fertile tra cultura e natura, tra lavoro e natura.
Fuori dalla vetrina tavoli di legno semplice, sedie da scuola, ognuna diversa dall’altra, per dire che siamo diversi. E la diversità è ricchezza. Un paio di signore belle, in cammino sulla Francigena, mangiano qualcosa, una vellutata, una tartare e sorseggiano un vino rosso.
La porta è spalancata. Per essere chiusa deve essere proprio sotto zero; i viandanti, gli amici, i pellegrini entrano ed escono. Dentro altre persone sedute a leggere un libro o a mangiare qualcosa. Una musica bella, Bach suonato da Amandine Beyer.
Una fila di librerie costeggia il lato sud del locale. Tanti colori, carta bellissima. E tanti vini e uno specchio fuori moda sul lato nord. In fondo un mettitutto degli anni Cinquanta, originale senza neanche una ripassatina di pittura sopra. Le vetrinette d’epoca mostrano velieri e palme incise. Esotico immaginario del dopoguerra. Altre stanze di libri e tavoli si percepiscono oltre un arco di pietra.

Lei legge le lavagnette e sbircia nell’interno. Fuori, appeso al muro, c’è anche un menù semplice scritto a mano con un gessetto. Una scrittura normale, senza ghirigori o arditezze grafiche.
Lui, un metro dietro, mantiene la posizione. Il telefonino in mano, immerso in una lettura, ricerca, insomma in qualcosa. Lei vuole provare. Lui chiede lumi agli script che regolano l’andamento della vita virtuale e interroga il telefonino. Il telefonino ha sempre una risposta affidabile fatta di stelle e suggerimenti, di quel mix di informazione pubblicitaria, galleggiamento social basato su stravaganti esercizi tecnologici. Una dittatura del virtuale sul reale. Una dittatura sorridente e felice, che agisce con la forza della suggestione anche quando il soggetto (o oggetto, dipende dai punti di vista) ha i piedi saldi nella realtà. Vede con i suoi occhi. Annusa, legge, tocca. È presente con il suo corpo e non è assente delegante come spesso accade. Non è assente e quindi oggetto di una lettura mediatica o di una suggestione virtuale.
Fermi tutti, non si tratta di una critica. Il sistema funziona così, scelte e pensieri vengono distillati anche attraverso del sistema oscuro di algoritmi. Sostanzialmente funziona e bene. In genere il potere agisce nella sua perfezione quando opera per dirigere scelte e decisioni, ingabbiando opinioni, rabbia e altre azioni che si muovono sul terreno scivoloso della politica, della cultura, quindi della vita. Il raccontino serve a mostrare il confine. Da una parte lo stupore dal vivo. Dall’altro quello mediato.

Lasciati ispirare, penso. Spegni ‘sto cavolo di aggeggio, riponilo in tasca e lasciati ispirare dalla vita, dai passi, dallo sguardo, dall’incontro con lo sconosciuto, da quello che ti sorprende. Lascia da parte l’azione dittatoriale dell’algoritmo oscuro che costruisce piramidi farlocche di democrazia e credi in te stesso, nel sogno, nell’avventura, nella semplicità delle cose belle.
Smettila di fotografare a raffica ogni cavolata, ogni stipite, ogni cartello con indifferenza e ferocia, senza fermarsi a riflettere se si tratta di una finestrella antica, col travertino levigato dalla storia o di pura paccottiglia abbindola-turisti. Mille foto, mille video, neanche uno sguardo vero. Una ricerca costante della conferma social, senza mai godere dell’estremo piacere che viene dalla bellezza di quello che hai davanti. Dalla scoperta del bello. Nel dono vero dell’incontro.
Questa narrazione pone un sacco di domande. E ogni domanda spalanca a ipotesi e visioni del mondo un po’ preoccupante. Perché se le persone si affidano completamente all’oggetto che stringono nelle mani, come fosse un telecomando che crea la realtà, immaginate quanto i contenuti filtrati ad arte dall’industria social possano devastare la democrazia, corrompere l’etica del discorso, trasformare i cittadini in passivi esecutori di orientamenti da parte dell’aggeggio che consultano come un oracolo.
In un certo senso mi collego con l’allarme lanciato da Carole Callwalladr alla Ted Conference, ripreso su queste colonne il 25 aprile da un editoriale ispiratissimo di Ennio Remondino. La giornalista inglese ha indagato sulle distorsioni della realtà che hanno animato la campagna della Brexit. Cogliendo un elemento che onestamente è spaventoso. Le persone che vivevano in un posto senza alcun problema vero, avevano una percezione della realtà talmente distorta mediaticamente dai social. Pensavano, agivano (e votavano) come se la realtà fosse quella virtuale.
Questa dittatura è pericolosa. Troppe persone vivono in un posto magnifico e credono alle panzane dei media o dei social al punto da non capire quello che hanno davanti. Non c’è bisogno di andare troppo lontano, neanche di arrivare nel Galles. Basta uscire di casa e guardarsi intorno. Quindi? Quindi occorre fare qualcosa contro questo monopolio virtuale. Ne scrivo da tempo. E stavolta ho preso spunto dai due ragazzi davanti alla vetrina. Uno col telefonino autoritario e l’altra no.

Per la cronaca. Lui ha cercato di convincere lei. Sempre col telefono in mano. Lei ha apprezzato un’installazione ardita, fatta di pietre, libri e vini, ha sorriso di fronte alle caparbie e curiose

Errore: Modulo di contatto non trovato.

affermazioni scritte a gessetto. Lui è andato. Lei è entrata nel misterioso mondo delle cose che ti ispirano.
C’è ancora speranza.

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