
Quel che resta del nostro senso critico maltrattato
Scena prima. Ci sono due ragazzi giovani che vivono a Milano. Lui, Gianfranco, è pugliese di origine. Lei, Beatrice, è valtellinese. Percorrono con sguardo bello la loro vacanza. Due ragazzi come tanti altri. Sorridono strizzando gli occhi all’orizzonte, leggono qualche riga da un libro, parlano fitti fitti.
Che cosa c’è di più rituale e stantìo dello scoprire quello che è già noto? Dell’apprezzare quello che è senso comune apprezzare, e rispondere in una determinata situazione così come va fatto. Navigando solo nel mare piatto del buon senso, di quell’insieme di regole e consuetudine che tengono al riparo, impediscono i venti forti delle scoperte, la sorpresa, l’inaspettato.
Scena seconda. Gianfranco e Beatrice si incuriosiscono di ciò che è sconosciuto. Si dialoga. Pensano che la cultura possa essere fertile nell’incontro, non chiudendosi nella nicchia dei pochi, dei pochi che parlano la stessa lingua inaccessibile ai tanti. Beatrice sfoglia una rivista e legge una poesia. Una breve poesia scritta da un poeta sconosciuto ai più, solo parole, cadenzate e sciolte in brevi frasi, nero su bianco. Poesia irrituale, inattesa. Non la poesia di un Pinco Pallino noto o di qualche personaggio mediatico da apprezzare a prescindere. Solo parole, le parole di Andrea Peracchi, giovane sensibile poeta.
Perdona la grazia maldestra del mio altare,
la mia sciupata devozione.
Perdona se la fronte mi s’imperla,
se le dita scoppiano in fiore
e inciampo contro i sassi
chiamandoli montagne.
È splendido ora, ma cosa intendo?
Tu lascia fare al fiato mi dico lascia
che soffi le vesti, inventi le piume, danzi gli umori.
È splendido ora, dovresti credermi.
Dovresti credere a queste pose,
l’avvento carnoso delle cose disfa le labbra
senza ragione, non chiede perdono.
Da sempre ti aspettavo a questi incroci.
E quanta paglia parla ora
quanta paglia il vento muove
quanta arsura nella gola
quanto dura la tua sconsiderata persona.
Scena terza. L’orizzonte è pieno di persone che non ascoltano mai. Di profeti della cultura che non considerano una sola parola se non la propria, di artisti del soliloquio, di lagnosi convinti che la sorte cinica e bara si accanisca contro di loro o che la cultura si faccia solo con la biografia di personaggi conosciuti con i quali scattarsi un selfie.
Può esserci qualcosa di diverso. Un altro mondo possibile, reale e non virtuale. Dove il pensiero di fa azione, la testimonianza agisce sul terreno culturale dell’incontro, dell’incontro come dono. Tanto più se l’incontro è con lo sconosciuto, se spalanca la vita a orizzonti diversi, meno mediatici e celebrativi, meno conformisti in fin dei conti. La scoperta è poesia.
Beatrice legge Peracchi che non conosce e scatta la scintilla. Vuole leggerne ancora, di quelle poesie. Sfogliare ancora pagine sconosciute alla scoperta. E la scoperta è necessaria per mettere in discussione ogni aspetto del conformismo che si vive e che procede sicuro tra politica e cultura.
Conclusioni. Siamo ancora in grado di cogliere la bellezza di una poesia, di un’opera d’arte, di un’immagine, di un paesaggio, di un vino? Dico, siamo in grado senza che qualcuno non definisca prima il valore di quello che stiamo per leggere, ascoltare, bere o vedere? Mi pare di cogliere in giro tanta omologazione, poche domande, zero senso critico. E coro, muto e annuitivo coro. Per questo lo sguardo puro di due ragazzi che non si arrendono mi riempie il cuore di gioia.
Viva Beatrice, che con i suoi occhi sognanti scopre il sogno nelle parole di Andrea Peracchi che non conosce. E si fida della scoperta, della bellezza dell’incontro e di ciò che la realtà dice davvero. Senza sovrastrutture mediatiche e dilazioni del pensiero virtuali. Con senso critico, per il mistero e lo stupore.