Kosovo, ritorno dei miliziani ex Isis (forse) pentiti, azzardo e rischi

Kosovo, base Usa in Europa

Kosovo, ritorno degli jihadisti Isis (forse) pentiti, scommessa e rischi

  • L’annuncio pre pasquale da Pristina dove la Resurrezione non si festeggia molto. «Nelle prime ore del mattino è stata organizzata un’operazione delicata durante la quale il governo del Kosovo, con l’aiuto degli Stati Uniti, ha rimpatriato 110 cittadini dalla Siria», ha annunciato il ministro della Giustizia del Kosovo, Abelard Tahir.
  • All’alba, come per ogni cosa che conviene tenere nascosta, salvo annuncio a cose fatte. Tahiri non ha specificato il ruolo degli Stati Uniti nell’operazione, «ma la bandiera americana è stata vista all’aeroporto di Pristina mentre l’operazione era in corso», riferisce una agenzia stampa locale, fornendo pochi altri dettagli.
  • Tra le persone rimpatriate ci sono quattro ‘foreign fighters’ che sono stati immediatamente arrestati. Tra i rimpatriati ci sono anche 32 donne e 74 minori non accompagnati. Secondo Pristina, sono quasi 400 i kosovari uniti allo Stato islamico per combattere in Siria e Iraq. Volontari nei tempi del fulgore Isis senza nuovi adepti.

Ex Isis e integralismi armati

  • Intanto, da quello che resta ancora campo di battaglia, la notizia che le milizie dello Stato Islamico restano ancora attive in Siria dove conducono per lo più imboscate e attentati ai danni delle forze governative e delle milizie curde sostenute dalla Coalizione delle Forze Democratiche Siriane.
  • Un gruppo di combattenti dell’ex Isis ha attaccato giovedì forze governative siriane nel deserto della provincia di Homs, dando vita a scontri durati due giorni e costati la vita ad almeno 27 soldati: lo ha reso noto ieri l’Osservatorio siriano per i diritti umani vicino all’opposizione siriana.
  • Da parte sua, la milizia pro-governativa Liwa al-Quds ha annunciato che membri dell’Isis hanno attaccato due battaglioni dell’esercito in quella zona: i miliziani Liwa sono corsi in soccorso dei battaglioni ed hanno recuperato i corpi dei soldati uccisi senza fornire un bilancio delle vittime.

Jihadismo kosovaro albanese

Primo paese in Europa per numero di foreign fighters jihadisti in Medio Oriente in proporzione alla popolazione. Le origini del fondamentalismo islamico in Kosovo presenta caratteristiche storicamente diverse rispetto alla situazione bosniaca. La guerra combattuta con Belgrado tra il 1996 e il 1999 non si è mai caratterizzata in una contrapposizione religiosa, anche se non sono mancati attacchi contro i monasteri ortodossi serbi, ma si è basata su rivendicazioni nazionaliste della componente albanese in Kosovo.

La penetrazione dei paesi arabi in quest’area non sembra essere stata così profonda come in Bosnia anche a causa del forte controllo sul territorio esercitato dai miliziani dell’Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo. Nonostante questo, negli ultimi anni anche nel piccolo Stato conteso (riconosciuto per il momento da meno della metà degli Stati Onu), il processo di radicalizzazione religiosa ha preso piede, non solo in termini numerici di adesioni ma soprattutto di nuove istanze politiche islamiche.

USS Camp Bondsteel

Secondo i servizi segreti kosovari (in strettissimo rapporto son quello Usa), le reti jihadiste presenti nel paese avrebbero a disposizione una capillare rete di campi di addestramento anche grazie al sostegno ottenuto dai vecchi combattenti dell’Uck. «Dovrebbe sorprendere la presenza di un campo di addestramento jihadista nella città di Ferizaj, non lontana dal confine con la Macedonia ma soprattutto a pochi chilometri di distanza da Camp Bondsteel (la più grande base militare americana fuori dai confini Usa)», annotava nel giugno scorso Nena News.

Sembrerebbe che dalla base americana siano passati i principali esponenti dello jihadismo kosovaro, a dimostrazione di come gli Stati Uniti abbiano contribuito, in una prima lunga fase del conflitto siriano all’addestramento e alla formazione dei combattenti islamici anti Assad, divenuti poi il braccio armato dell’Islamic State e del Califfato terrorista nel mondo.

Foreign fighters il ritorno

I combattenti jihadisti partiti per la Siria sono stati sopratutto giovani uomini, anche se non indifferente è stata la presenza femminile. In Kosovo il 43% della popolazione totale ha meno di 25 anni con un tasso di disoccupazione generale del 33% e del 57,7% per quella giovanile. Caratteristiche sociali, disoccupati o comunque in condizioni materiali di privazione e povertà, profondamente delusi dai fallimentari processi di democratizzazione ed europeizzazione avviati dopo i conflitti degli anni ’90.

La fine della Jugoslavia e le conseguenti guerre etno-nazionaliste ha creato forti squilibri di valori, e con processi identitari confusi e spesso contraddittori. L’esistenza di uno Stato Islamico, territorialmente riconoscibile e con un’organizzazione basata sulla legge coranica, ha rappresentato un orizzonte di riferimento per la giovane popolazione musulmana nell’area. La loro radicalizzazione è avvenuta in contesti economicamente e socialmente marginali.

‘Honor is in Jihad’

«Cosciente di ciò, l’Isis ha fatto leva sulle difficili condizioni di vita in questi contesti e nel 2015 ha pubblicato un video dal titolo “Honor is in Jihad. A message to the people of the Balkans”», scrive Marco Siragusa su Nena News. Immagini e narrazione in quel video su quella che viene considerata l’umiliazione subita dai musulmani dalla fine dell’Impero Ottomano, per poi concentrarsi sulla denuncia delle attuali condizioni cui sono sottoposti i musulmani nell’area istigandoli ad atti violenti contro i miscredenti.

La sconfitta e lo smembramento dello Stato Islamico ha avuto come conseguenza diretta il ritorno di alcuni jihadisti nei paesi di origine, circa il 30% di coloro che erano partiti, con doppio problema, di sicurezza e politico. Sicurezza: il ritorno di individui militarmente addestrati e con collegamenti con le cellule jihadiste nel mondo. I casi nel 2018 di arresti in Italia nei confronti di kosovari e bosniaci accusati di progettare attentati anche nel nostro paese.

Reinserimento garantito da chi?

«Dal punto di vista politico il rischio è quello di una crescente radicalizzazione delle masse, o almeno una parte di esse. In un’area ancora instabile come i Balcani questo potrebbe portare a un innalzamento del conflitto tra etnie e nazioni diverse o anche all’interno dei singoli paesi, così come potrebbe portare a uno spostamento delle rivendicazioni politiche delle popolazioni verso posizioni fondamentaliste di natura religiosa polarizzando ancor di più le società coinvolte».

Reinserimento di questi soggetti nelle mani delle fragili istituzioni democratiche nell’area?
Il rischio rilevato è quello di trasformare i Balcani, già segnati da molte problematiche interne diversificate e irrisolte, in zona franca per i jihadisti pronti a colpire in Europa. Il Kosovo certamente punto di crisi più sociale che di identità religiosa, ma forse la vicina Bosnia con problemi ancora più radicali su questo fronte.

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