
Diplomazia bulldozer. Donald Trump carica a testa bassa in Medio Oriente (e non solo). Questa volta con una mossa incendiaria, che verrà percepita dal blocco sciita (Iran, Libano e Siria in primis) e da una parte della galassia sunnita come una vera e propria provocazione senza appello: gli Stati Uniti hanno riconosciuto il Golan (preda di guerra dal 1967) come parte integrante del territorio d’Israele.
Che significa? Vuol dire avallare, con tutto il rispetto per le esigenze di “autodifesa” di Gerusalemme, il diritto di conquista, mettendosi sotto i piedi, invece, quel che resta del diritto internazionale. E siccome il re non fa corna, anche questa volta l’Onu, paralizzata da un’architettura di veti incrociati, farà la figura del circolo dei bocciofili.
Trump parla a stento uno stridulo inglese nasale, che fa molto Paperino. Per cui figuratevi se capisce di “latinorum”. Beh, se la storia è maestra di vita, che qualcuno glielo spieghi. O gli faccia un disegno. Il Golan è una specie di Alsazia-Lorena mediorientale. Chi lo perde, sogna solo di riconquistarlo, a costo di lasciarci penne e piume. Come capitò ai francesi, dopo Sedàn e la catastrofica sconfitta davanti alle armate prussiane nel 1870. Ci vollero due guerre mondiali e milioni di morti per recuperare e consolidare la sovranità su quella regione. Bella, suggestiva, ma famosa solo per il Riesling, i formaggi e la “chacroute” di maiale. Un po’ poco.
Oggi gli scenari sono altrettanto esplosivi. E gli arabi e i persiani non sono più tolleranti dei franchi e degli unni con l’elmo chiodato. No. Loro hanno fatto del Golan e del Monte Hermon un bastione dello spirito, dove c’entra di tutto: nazionalismo, cultura, religione, strategia e acqua.
Ma andiamo con ordine. Sbaglierebbe chi pensasse che Trump ha fatto solo un favore a Israele, per far vincere le elezioni a Netanyahu. Sotto banco si agitano tante altre paturnie della “diplomazia parallela”, che portano più lontano. Vogliamo scavare per capirne di più? Gratta gratta, sotto la vernice spunta il nome del convitato di pietra, l’Arabia Saudita. Vero “patron” e finanziatore dell’universo sunnita a ogni livello. Il terrorismo si può foraggiare per mettere bombe. Ma anche per non metterle. “Elementare, Watson”, avrebbe detto compiaciuto Sherlock Holmes.
Alla Casa Bianca pensano che i veri nemici siano il fondamentalismo sunnita (tenuto a bada dai petrodollari di Riad) e le rampanti tentazioni egemonistiche, sulla regione, degli ayatollah. E così, un colpo al cerchio e uno alla botte, Trump pensa di pararsi le terga almeno da tre lati. Bisognerà vedere se i calcoli sono giusti. Perché l’Iran guarda al Libano come terra di conquista (rispolverando la vecchia idea sciita della “Grande Siria”), mentre Hezbollah può diventare una spina nel fianco per tutti.
Fra le altre cose, anche il terrorismo di matrice sciita può vantare un vecchio pedigree “internazionalista”. Per cui, occhio. La verità è che da oltre mezzo secolo in Medio Oriente si cerca di quadrare il cerchio. Di arrivare, cioè, se non a un vero e proprio trattato di pace, almeno a un compromesso che consenta a Israele di non subire minacce alla sua stessa esistenza, ai palestinesi di avere una patria, sia pure “a macchia di leopardo”, e al governo di Amman di ottenere una indiretta e parziale, ma certamente onorevole, restituzione della Cisgiordania. Tutti però fanno finta di dimenticarsi della “resuscitata” Siria di Assad.
La sottovalutazione del ruolo strategico di Damasco ha già fatto fallire, nel tempo, numerosi tentativi della diplomazia americana di far raggiungere agli arabi un accordo definitivo con Israele. E il motivo è semplice: l’Egitto ha ottenuto la restituzione del Sinai fino all’ultimo granello di sabbia, la Giordania spera che la West Bank possa diventare in futuro il nucleo di un vero Stato palestinese, mentre invece la Siria ha sempre ricevuto da Tel Aviv un netto rifiuto per quanto riguarda la possibilità di tornare in possesso del Golan. Ora la mossa di Trump spariglia definitivamente le carte.