
Il giorno prima di ogni guerra… Gli illusi, gli sciocchi e i generali
La notizia ufficiale dell’attacco tedesco alla Polonia raggiunse Parigi e Londra intorno alle otto del mattino del 1° settembre 1939: per molti fu una sorpresa tremenda, ma non si può nemmeno dire che fosse del tutto inattesa. Politici, militari e diplomatici europei erano già in agitazione almeno da un paio di settimane, ma i più lungimiranti – in verità non moltissimi – lo erano invece da molto prima. Al contrario di quanto accadde nel 1914, quando i diplomatici di tutti i paesi avevano sempre mantenuto un atteggiamento formalmente corretto nel trattare questioni irte di difficoltà, a Berlino – nel corso dell’ultimo colloquio ufficiale tra il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop e l’ambasciatore inglese Henderson avvenuto nella notte tra il 30 e il 31 agosto – per poco non si venne alle mani in presenza dello sconcertato interprete Schmidt. Per conoscere tutti i particolari si dovette attendere il processo di Norimberga, quando cioè Ribbentrop, dal banco degli imputati negò, anche di fronte all’evidenza dei testimoni, di aver tenuto un atteggiamento provocatorio nei confronti dell’inglese, ammettendo comunque di aver seguito alla lettera le precise istruzioni di Hitler.
La tensione dominò anche i colloqui che nelle stesse ore si stavano svolgendo a Varsavia tra i polacchi e gli ambasciatori francese ed inglese. Parigi e Londra erano molto preoccupate degli sviluppi possibili e tentarono di convincere i polacchi ad intavolare trattative dirette con la Germania, anche raccomandando di ‘cedere eventualmente’ su alcuni punti delle richieste tedesche pur di salvare la pace. A mezzogiorno del 31 agosto, con certo sollievo, i ministri degli esteri francese e inglese appresero che i polacchi si stavano finalmente apprestando a negoziare direttamente con la Germania. L’ambasciatore polacco a Berlino telefonò infatti intorno all’una per essere ricevuto e infatti alle diciotto fu accolto da Ribbentrop in persona. Di fronte alla dichiarazione di accettare le trattative dirette, i tedeschi alzarono però la posta: se le trattative erano accettate da parte della Polonia, esse avrebbero dovuto iniziare subito, ma Lipski non ne era ancora stato incaricato dal suo governo. Rientrato in ambasciata per comunicare il risultato del colloquio, Lipski si trovò nell’impossibilità di telefonare perché le comunicazioni con Varsavia erano già state interrotte dai tedeschi. Simulando invece costernazione per quanto accaduto, Ribbentrop comunicò allora a Francia e Inghilterra che la Polonia non aveva accettato le trattative.
Le manipolazioni non si limitarono alle relazioni diplomatiche. Intorno alle venti del 31 agosto, quando cioè l’ambasciatore polacco tentava senza successo di mettersi in contatto con Varsavia, un gruppo di armati in uniforme polacca attaccò la stazione radio di Gleiwitz in territorio tedesco, la occupò e diffuse dalla trasmittente un delirante messaggio in polacco. Nel corso della sparatoria alcuni polacchi furono uccisi, ma – sempre nel corso delle udienze del processo di Norimberga – fu accertato che non di polacchi si trattava, bensì di sconosciuti prigionieri di un campo di concentramento nazista: erano stati rivestiti con uniformi polacche, uccisi con armi da fuoco e lasciati sul terreno per dimostrare che l’incursione era un atto di aggressione perpetrato contro la Germania. In realtà – si seppe in seguito – l’attacco era già stato deciso a Berlino dal 26 agosto.
Poco più di vent’anni prima del settembre 1939 l’Europa era già stata sconvolta da un vasto conflitto, ma circostanze e modalità erano state ben diverse. Una delle immagini più frequenti dello scoppio della guerra nella cronaca e nella letteratura è infatti quella del ballo interrotto o della turbata tranquillità di una giornata festiva: il 28 giugno 1914, il giorno di Sarajevo, era infatti domenica, ma nessuno era consapevole che i valzer della “bella epoque” sarebbero finiti per sempre. Per un mese si svolsero febbrili trattative tra le potenze per scongiurare il pericolo di una guerra, ma il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia, primo atto di una carneficina senza precedenti, di un suicidio europeo che si sarebbe protratto per altri quattro anni. Sebbene non mancassero anche allora manovre politiche spregiudicate o subdole, esse non raggiunsero però mai la fredda determinazione e il cinico calcolo di quelle effettuate nel 1939.
Il 3 agosto 1914, poche ore dopo che il parlamento britannico aveva votato l’ingresso in guerra a fianco della Francia e della Russia contro la Germania, il ministro degli esteri inglese, sir Edward Grey, aveva espresso al proprio segretario un presentimento che purtroppo si sarebbe avverato. Mentre a Londra cominciavano i preparativi per la guerra, Grey disse malinconicamente: «Le luci sull’Europa si stanno spegnendo, e non le rivedremo più nel corso della nostra vita». Grey morì nel 1933 e in parte rivide quelle luci, anche se meno splendenti, ma fortunatamente scomparve prima della fine dell’impero britannico. A Berlino invece, parecchie ore prima, il generale Helmut von Moltke attendeva fiducioso di poter dare l’ordine di marcia al potente esercito imperiale. Da anni era stato programmato anche il più minuto particolare del famoso piano Schlieffen che avrebbe dovuto far crollare la Francia in sei settimane, ma già nelle prime ore ebbe una sgradevole sorpresa: l’Inghilterra non sarebbe rimasta neutrale. Non si trattava del ruolo del piccolo esercito britannico, ma dell’eventualità di restare isolati dal resto del mondo, bloccati dalla più potente marina militare dell’epoca.