Gli spazi culturali come presidi di libertà

La parola cultura è quasi sempre assente nella dialettica sociale e politica. Rappresenta la parola che non c’è, il contorno inutile, il dettaglio di cui il populista può fare a meno. Se “non facciamo politica” è il biglietto da visita del conformismo rutilante, “cultura” è il non detto. Per due ordini di motivi. Primo: figuriamoci se non facendo politica possiamo perdere tempo con quisquilie culturali. Secondo: con la cultura si mangia?

Fraintendimenti, quindi. Che tengono ben chiaro e visibile il dogma del tempo: ogni cosa deve produrre soldi (possibilmente per pochi, a discapito di molti). Tutto quello che esula dal principio del profitto come fondamento etico del vivere, non deve esistere. Una colonizzazione feroce. Che ci rende conoscitori attenti in ogni aspetto del consumo, ignoranti sulle basi della vita, sui nostri diritti, sull’idea di che cosa sia la giustizia sociale e la libertà, su che cosa ci fa bene davvero.

Quindi sì, cultura. È una bella parola, per me è legata all’idea della terra, alla radice stessa del verbo latino colere: coltivare, curare, abitare. Coltivare Cultura fa bene al cuore, perché rispetta con cura il tempo dell’abitare, il ciclo delle stagioni, ciò che cresce, ciò che muore e che rinasce. Con semplicità, fuori dal quel conformismo ottuso, frettoloso e superficiale, che vuole misurare tutto e che affastellando quattro dati imparati a pappagallo in tv vuole stabilire che cosa è cultura e che cosa non è cultura. Chi ha il diritto di parlare e chi il dovere di fruire anche senza capire.

Coltivare Cultura necessita di uno spazio, di un luogo dove l’azione è fertile, dove può essere significativa per la comunità. Niente di virtuale, di distante e inaccessibile. Un qualcosa che aiuti gli uomini e le donne a capire meglio il senso di ciò che facciamo, a porsi il dubbio. A mettersi in cammino, perché sempre nella storia la rivoluzione avviene mettendosi in cammino. Quindi nella realtà della terra, della strada, dei boschi, dei luoghi dove poggiamo i piedi. Dove possiamo pensare l’impensabile e sfidare l’impossibile.

Non solo, questo vuol dire fare politica, ma vuole dire avere una cultura che attraversa i tempi, che affonda le radici nella storia e guarda con libertà al futuro. Scrivo spesso sul Coltivare Cultura e sul rapporto dell’essere umano con la terra, con la realtà contro il mondo virtuale colonizzato. Stavolta per concludere questa riflessione uso le parole di un filosofo, Tiziano Bonini: “…concepire gli spazi culturali come dei rifugi, dei presidi di libertà, spazi neutrali dove i cittadini sono al riparo dalle pratiche di datification (misurazione costante della loro performance spettatoriale), dove non vengono spogliati dei propri dati personali per fini commerciali, dove sentirsi per qualche ora al sicuro dai circuiti di estrazione di valore (dati): biblioteche, musei, teatri, scuole, palestre pubbliche dovrebbero essere dei luoghi che non depauperano i cittadini dei loro dati, non li misurano costantemente, non li monitorano. Lasciamo i sensori di rilevamento degli stati emotivi fuori dai musei, e teniamoli per i supermercati, se proprio non possiamo farne a meno”.

Nel nostro modo di vedere il mondo, fuori dagli schemi, lavoriamo per questo. Facciamo politica e facciamo cultura sul territorio con il nostro piccolo spazio. Camminiamo come gesto sovversivo, con un’idea conviviale e di gentilezza. Con cura e attenzione come fatti rivoluzionari. Scrive ancora Bonini: “…non chiederti come portare le mandrie dentro lo spazio culturale, chiediti cosa puoi dare loro. Se hai qualcosa da dare, allora qualcuno si innamorerà di te, in maniera organica e non passeggera. Lascia che si innamorino di te, non tentare di persuaderli ad innamorarsi di te”.

Visto? Alla fine sempre di amore si tratta. Per la vita, per la polis, per la cultura che rende fertile la vita nella comunità, per l’abitare. In piedi, fuori dal virtuale.

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