Corea: pace imminente o grande inganno?

Nobel per la pace o per l’arroganza

Corea: pace imminente o grande inganno?
Donald Trump e Kim Jong-un faccia a faccia per la seconda volta nello spazio di pochi mesi e, com’era lecito attendersi, l’attesa per l’incontro è grande. Si dice che il tycoon newyorkese voglia sfruttare l’occasione per puntare addirittura al Nobel per la pace e, tenendo conto del suo ego smisurato, la notizia non è poi così priva di fondamento.
D’altro canto anche il giovane leader di Pyongyang sta giocando le sue carte. Mira a diventare, dopo essere stato definito “rocket man” dal suo interlocutore, un “uomo di pace”, colui che riuscirà a porre la parola “fine” alla cosiddetta “guerra dimenticata” (quella di Corea, per l’appunto), un conflitto concluso nel 1953 con un armistizio mai tramutatosi in pace vera. Al punto che, tecnicamente, la guerra non è mai finita.

Come sempre accade quando si affronta questo argomento, il problema consiste nel capire in primo luogo cosa sia davvero la Repubblica Popolare Democratica di Corea, e poi chi detenga realmente il bastone del comando a Pyongyang.
Al primo quesito alcuni rispondono che si tratta di uno degli ultimi Paesi socialisti rimasti nel mondo attuale, quello che con più coerenza porta avanti l’eredità di Marx, Lenin e Stalin senza cedere – come ha fatto la Cina – alle sirene del mercato e del denaro.

Discorso difficile da sostenere, visto che siamo in presenza di un vero Stato dinastico, dove a partire dal 1948 il potere è trasmesso da padre in figlio nell’ambito della stessa famiglia, e dove – urge rammentarlo – i membri della suddetta famiglia sono considerati delle semidivinità.
Cosa c’entri tutto ciò con il socialismo non è affatto chiaro. In altri contesti il monopartitismo è temperato dalla condivisione del potere all’interno di gruppi che, per quanto ristretti, non sono tuttavia monofamiliari. Né vi sono, nella Corea del Nord, segnali di un’inversione di tendenza.

Al secondo quesito è ancora più difficile rispondere. “Rumors” persistenti dicono che, in realtà, l’unico a esercitare il potere vero è stato il fondatore Kim Il-sung. Il figlio Kim Jong-il e il nipote e leader attuale, Kim Jong-un, sarebbero invece dei personaggi di facciata manovrati da un gruppo ultraristretto di generali e superburocrati, i quali usano il “marchio Kim” per continuare a esercitare il potere reale.
Vero o falso? Entrambe la soluzioni sono possibili. Da un lato la giovanissima età e l’inesperienza dell’attuale leader porterebbero a credere che sia effettivamente “guidato” da menti esperte, intente più che altro a far sì che nulla cambi sul serio nell’immobile panorama nordcoreaano. Da questo punto di vista la presenza dei Kim è una garanzia, non essendo il popolo abituato ad altre figure dominanti.

Dall’altro, tale scenario è contraddetto dalla grande discrezionalità di cui il giovane Kim – come suo padre prima di lui – sembra godere anche quando è impegnato, come in questo periodo, in trattative internazionali. Vede da solo, o al massimo con la sorella, i leader stranieri e pare avere una certa padronanza degli argomenti in discussione.
La situazione, insomma, è tutt’altro che chiara, e come sempre accade in questi casi gli ambienti dell’intelligence si sbizzarriscono nelle ipotesi più audaci. Mettono per esempio in dubbio la volontà nordcoreana di smantellare realmente l’arsenale nucleare.

Ne è riprova il fatto che il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo (di provenienza Cia), ha confermato tutti i dubbi americani al riguardo. E senza troppo curarsi di smentire in questo modo l’opinione del suo presidente Donald Trump il quale, con un ennesimo tweet, aveva detto che la Corea del Nord “non è più una minaccia nucleare”.
Pare che Trump si fidi, assai più dei suoi collaboratori, del presidente cinese Xi Jinping e della sua capacità di influenzare la politica di Pyongyang. Non a caso ora si parla di una possibile soluzione della guerra dei dazi tra Pechino e Washington, agganciata anche alla risoluzione del problema coreano.

Per capire cosa dobbiamo attenderci, è probabile che si debbano rimandare analisi più serie al previsto summit Trump-Xi nella tenuta trumpiana di Mar-a-Lago, luogo della Florida che il tycoon preferisce alla Casa Bianca. Se così sarà, avremo conferma che il destino della Corea si gioca altrove, e non a Seul o a Pyongyang.

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