
Le prossime elezioni politiche in Israele, in calendario per il 9 aprile, hanno tra i tanti protagonisti anche un piccolo, ma scomodo partito. Già il nome dice qualcosa: Potere ebraico (Otzma Yehudit), erede del partito razzista Kach del rabbino Meir Kahane. Nomi che rimandano alla strage dei palestinesi, ad Hebron, del 1994. Strage lontana nel tempo, ma carica ancor oggi di conseguenze per quella popolosa città. All’opinione pubblica di destra ed anche ai militanti di Potere ebraico si è rivolto il premier Netanyahu, chiedendo di non disperdere i loro voti, di scegliere lui contro il blocco dei suoi oppositori (che il premier definisce di sinistra, cioè l’ex generale Benny Gantz e il politico di lungo corso Yair Lapid). Per allontanare – dice ancora Netanyahu- la minaccia di un governo israeliano ostaggio dei voti dei partiti arabi di sinistra.
Insomma, per essere riconfermato Netanyahu non va per il sottile. Anche se puntualizza: “coloro che pensano che la pace con i palestinesi si possa raggiungere sradicandoli da questa terra rischiano di ottenere l’effetto contrario.”
Che ci siano, ancora oggi, a distanza di venticinque anni dalla strage di Hebron, israeliani che pensano a radicali soluzioni fa venire i brividi e mostra l’incapacità di riflettere fino in fondo su quella strage.
Era un venerdì, l’ultimo del mese del Ramadan di quel 1994. La mattina del 25 febbraio nella Moschea Ibrahimi, nella città di al-Khalil (nome arabo di Hebron), all’interno dei Territori palestinesi occupati, c’era dunque più gente del solito. Forse erano più di 800. Baruch Goldstein vi entra con il suo fucile automatico Galil. Ha 37 anni, è medico ed è un ebreo nato a New York nel quartiere di Brooklyn. Undici anni prima era immigrato in Israele, dove aveva fatto anche il servizio militare. Ora vive nella colonia israeliana di Qiryat Arba, confinante con Hebron. Soprattutto, Goldstein è uno dei fondatori della Lega di difesa ebraica, che ha il suo leader nel rabbino americano Meir Kahane. Un movimento che si qualifica come sionista, implacabile contro gli arabi ed anche ostile alla democrazia israeliana.
Goldstein spara più di 100 colpi di fucile in quella che per lui è solo la Tomba dei Patriarchi, dove la tradizione ebraica colloca la sepoltura di Abramo, Isacco e Giacobbe. Uccide 29 fedeli musulmani e ne ferisce più di 100. Lui viene ucciso, bastonato a morte dai sopravvissuti alla strage, che appare come il primo attacco suicida del conflitto israelo-palestinese. Goldstein, infatti, era certo che non sarebbe potuto uscire vivo dalla moschea. Altri 30 palestinesi moriranno nei giorni seguenti, nelle proteste represse dall’esercito israeliano. Moriranno anche quattro israeliani. 40 giorni dopo, con la fine del lutto islamico, ad Afula, città nel nord di Israele, Hamas compirà per rappresaglia il suo primo attentato suicida.
Le prime reazioni della politica e della società israeliana all’atto di Goldstein saranno contrastanti.
Viene permesso il corteo funebre in onore di Goldstein, all’interno della colonia di Qiryat Arba, dove ancor oggi è la sua tomba. Viene salutato come un eroe. Non solo, ma un parco, in questa cittadina che ora ha 7000 abitanti, verrà dedicato al rabbino Kahane. Nel contempo il movimento da lui fondato viene sciolto in Israele perché considerato organizzazione terroristica. Risorgerà dalle sue ceneri qualche anno dopo sotto forma di vero e proprio partito e giungerà fino ai nostri giorni.
Cambierà radicalmente invece la vita ad Hebron. La crudele beffa sarà che le vittime, cioè i palestinesi, pagheranno d’ora in poi un prezzo altissimo in nome della sicurezza. Per prevenire altri attentati e vendette, la Moschea di Ibrahimi verrà di fatto divisa in due parti: unico luogo visibile ad entrambi, musulmani ed ebrei, la stanza con la Tomba di Abramo. Viene anche divisa in due parti la città: Hebron 1 affidata al controllo dell’Autorità nazionale palestinese ed Hebron 2 controllata dall’esercito israeliano. La seconda tappa degli accordi di pace di Oslo, firmata nel 1995, formalizzerà questa divisione. Inizieranno lunghi anni definiti così, dall’associazione dei soldati israeliani Breaking the silence: ” …violenza e discriminazione sono diventati una inestricabile parte della vita di Hebron.” I soldati israeliani ricevono l’ordine di “sterilizzare” in modo permanente le strade di Hebron 2, cioè di fatto il centro storico. Lì hanno deciso di insediarsi alcune centinaia di coloni ebrei, mai più di 800, in ricordo del massacro subito dagli ebrei nel 1929. Loro chiedono e nel contempo impongono protezione contro i 40 mila palestinesi della zona. Nei confronti di questi ultimi scatta un sistema discriminatorio, con l’obiettivo di allontanarli in altre zone di Hebron, città che conta in totale 200 mila palestinesi.
Sono le testimonianze di alcuni soldati israeliani a dare la misura della violenza che viene compiuta e che corrode anche chi la compie. Scrive il soldato Dean: ”All’ìnizio io odiavo sparare ai bambini, agli scolari, con i proiettili di gomma, ma dopo qualche mese ci davamo il cinque l’un l’altro ogni volta che ne colpivamo uno.” Ogni tipo di protesta viene dunque repressa e si giunge a gesti orribili, come quello del soldato Elor Azaria, che nel marzo del 2016 uccide con un colpo alla testa un giovane palestinese, bloccato a terra, ferito e disarmato, dopo che aveva tentato di accoltellare un altro soldato. Dietro l’angolo la quasi impunità: condannato a 18 mesi, uscirà dal carcere dopo 9 mesi. Dice ancora Dean: “… non avevo idea otto anni fa che avrei dovuto dire in pubblico la stessa sconfortante verità che mi disse il soldato e veterano Avner: cioè dell’immorale realtà dell’occupazione alla quale ho preso parte come soldato prima, membro di una unità speciale della fanteria, e poi come tenente in Cisgiordania…”.
Il racconto, la documentazione di questa storia di Hebron, è in un rapporto, scritto a venti anni dall’inizio della stabile presenza degli osservatori internazionali ad Hebron, chiamati i poliziotti del Tiph (Temporary International Presence in Hebron). Erano arrivati nel maggio del 1994, per tre mesi, dopo la strage nella Moschea Ibrahimi, inviati dall’Onu, ma con il consenso delle autorità israeliane e palestinesi. Consenso ribadito all’inizio del 1997. Solo poche decine di osservatori, disarmati. Cinque paesi che li inviavano, Norvegia, Italia, Svezia, Svizzera ,Turchia. Adesso stanno facendo le valigie, compresi i nostri 15 carabinieri. Netanyahu ha detto, a fine gennaio, mentre in Israele era in visita il Ministro degli esteri Enzo Moavero, che il governo non avrebbe rinnovato il suo semestrale assenso ad “una organizzazione che agisce contro di noi”.
Più che il governo israeliano sono state le organizzazioni dei coloni israeliani in Cisgiordania e ad Hebron ad irritarsi contro i membri del Tiph, armati di penne e macchine fotografiche. Nel rapporto sui venti anni di presenza a Hebron fino al 2017 ben 40 mila sono stati gli incidenti e le violenze registrate. Un numero imponente che le organizzazioni israeliane hanno letto come un atto di accusa.
Le prossime elezioni politiche hanno dato l’occasione per rimuovere una presenza ingombrante e forse consolidare una massa di potenziali elettori.