L’unica salvezza è tornare alla politica

Non vogliamo fare politica. Questa premessa che circola nell’aria, introduce ragionamenti, aleggia sugli incontri civili, in questa fase storica sembra voler tracciare la linea guida delle attività nella comunità. Non facciamo politica, viene continuamente sottolineato mentre l’azione che viene svolta, nella pratica dialettica, negli incontri, sul territorio, nella comunità sarebbe un’azione politica per definizione.
Resto sempre affascinato da questa premessa che prende le distanze. Dal voler sottolineare, quasi per scusarsi dell’indebita intromissione, che la politica è roba da grandi, che la pratica politica appartiene ad altri, non a noi semplici cittadini, non a noi esseri umani che agiamo e viviamo nella polis. E ogni volta mi chiedo il perché. Perché giustificarsi a fronte di un’azione significativa nell’abitare il proprio territorio, il quartiere, la città, il paese?

In questo periodo in cui si discute di elezioni, di governi e di cose che vanno e che non vanno nella comunità, nel paese, nel mondo, la scelta è proprio tra la premessa di cui parliamo e il suo esatto contrario. Tra la scelta di definire l’azione in non-politica, svuotandola quindi di contenuti, limitandola al livore, all’indifferenza, alla chat e al semplice esercizio del voto o allargare gli orizzonti e agire con senso critico, non accettando passivamente quella che sembra una visione dominante che produce, necessariamente, conformismo, bruttezza, indifferenza e le sue declinazioni di razzismo e inciviltà.

Rovesciando il luogo comune si può invece affermare che la politica è l’unica salvezza. Lo è il fare del pensiero un’azione nell’abitare civile, quindi agire nella politica nel senso più pieno. Non ritenendo la politica quella roba delle dichiarazioni roboanti, degli slogan, delle frasi fatte e degli affarucci segreti: è necessaria la politica delle piccole cose, delle relazioni umane che occorrono per tenere salda la comunità, che nutrono la convivenza civile. La politica fatta dai tanti è una cura. La politica fatta da pochi per un’arena mediatica di tanti, è la malattia.

Per circostanze che hanno magia e poesia, proprio mentre scrivevo queste riflessioni mi è giunta una lettera bellissima, a commento dei pezzi da me scritti in questo anno e mezzo su Remocontro. E con la lettera il piccolo non-manifesto del Circolo delle Lucciole. Breve e bellissimo, si apre con questa affermazione: “Che cosa significa ripensare l’uomo in quanto relazione? Anzitutto vedere in ogni individuo umano il mondo intero”. Proseguendo nella lettura, a un certo punto il non-manifesto afferma:
“In termini molto generali: da un lato, il più impercettibile gesto del singolo rinvia fuori di sé all’esistenza dell’umanità intera, così come la singola maglia della rete è quel che è solo insieme con tutta la rete; dall’altro, il minimo respiro del minimo degli uomini contiene dentro di sé il fiato di tutto ciò che è umano. L’individuo umano è tale perché ha l’umanità fuori e dentro di sé. Solo la cogenza di una tale premessa può giustificare il detto aristotelico che l’uomo è un animale politico; e rendere giustizia ai valori della tolleranza e della democrazia. Infatti, solo se siamo, ciascuno per la propria parte, figura reale e adeguata dell’intero, siamo davvero uguali e corresponsabili; e solo a questa condizione possiamo sentire di accampare diritti riconosciuti da tutti e sobbarcarci doveri verso tutti”.

Uguali e corresponsabili per la tolleranza e per la democrazia. Quindi sì, siamo animali politici, e ognuno di noi per la propria parte deve agire con responsabilità e umanità, con cura e sensibilità, per abitare civilmente e poeticamente la comunità. Basta poco, nel caseggiato, nel paese, nel luogo di lavoro. L’importante è sovvertire lo slogan: non vogliamo fare politica. È necessario farla, invece. Noi vogliamo farla.

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