
Tra Brigate rosse e mafia
Ho incontrato la mafia prima di conoscere Tommaso Buscetta. Masino è stato soltanto il master finale, il super docente in un percorso di apprendimento iniziato nelle aule di tribunale dei maxi processi, nei corridoi delle Procure, caserme e questure. Spesso per le strade dei delitti che mi è toccato vedere e raccontare. C’è stato un periodo, un po’ prima degli anni ’90, in cui gli allora cosiddetti mafiologi che arrivavano dalle redazioni centrali a sovrapporsi ai colleghi locali, solitamente più preparati e bravi di noi, avevano una rete stagionale di appuntamenti fissi. Per l’estate torrida di Palermo, il preferito era l’hotel villa Igea, ai piedi del monte Pellegrino, con la sua piscina che si affaccia sull’apertura del golfo di Palermo.
Nelle altre stagioni, si sceglieva il più centrale hotel Delle Palme, luogo di antichi vertici di mafia che, con indifferenza quasi secolare, accoglieva ora la cosiddetta antimafia delle parole militanti. Chi la mafia la combatteva sul campo intanto continuava a morire. I miei ricordi si rincorrono, in quel periodo, con gli ultimi colpi della sfida brigatista. Mentre a Palermo, nel gennaio dell’88 la mafia uccideva l’ex sindaco Giuseppe Insalaco, ciò che rimaneva delle colonne brigatiste metteva sotto tiro il consulente della Presidenza del Consiglio Roberto Ruffilli. Il 16 aprile a Forlì, l’agguato che lo uccise. Da allora la sfida armata allo Stato fu praticamente una esclusiva di mafia. Ai ritmi ossessivi imposti dai corleonesi di Riina.
Magistrati bersaglio
Ricordo di aver rincorso a Palermo l’assassinio del presidente della Corte d’Appello Antonino Saetta, ucciso assieme al figlio Stefano, mentre due giorni dopo, la mafia di Trapani ammazzava il collega e sociologo Mauro Rostagno. Da Roma, per lui, dovette partire Giulio Borrelli. In Sicilia era allora un via vai di inviati speciali allo sbando, mentre, per chi di noi veniva dal nord, tornava l’odore acre degli anni di piombo brigatisti. Il sospetto mai risolto che, ancora una volta, il Paese si trovasse coinvolto in una partita occulta tra Stato e Antistato, trovò conferma a metà giugno dell’anno dopo.
Sulla scogliera dell’Addaura, tra Palermo e Mondello, nella villa che era il rifugio estivo di Giovanni Falcone, viene trovato un ordigno ad alto potenziale. Ricordo che in quei giorni, a Palermo, c’era chi instillava veleno su una montatura da parte dello stesso bersaglio per incassare consensi. Le cronache recenti ci dicono di incredibili coinvolgimenti in quella vicenda di pezzi dello Stato, ma già allora il segnale, a saperlo leggere, era molto forte. Un anno dopo, lungo la strada a scorrimento veloce tra Caltanisetta e Porto Empedocle, viene ammazzato il sostituto procuratore di Agrigento, Rosario Livatino, che viaggiava senza scorta. La vittima, 38 anni, era quel “magistrato ragazzino” che s’era meritato gli strali dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga per una sua inchiesta sui rapporti tra mafia e massoneria.
La Primavera di Palermo
Ricordo ancora oggi commosso, l’incontro con la splendida famiglia del giudice ragazzino. Una dignità che lo Stato, in alcune sue parti, non mostrava certo di possedere. Sono le “Estati dei veleni” che segnano la “Primavera di Palermo”. Slogan giornalistici a definire lo scossone al potere e alla politica dominante dato dalla giunta Orlando tra il 1985 e il ‘90. Memorie confuse di situazioni meglio descritte da altri. Resto alle istantanee personali, letture ristrette. A volte semplici immagini, come quelle di folli passeggiate notturne per la strade di Palermo con alcuni magistrati e dintorni, tutti possibili bersagli e tutti scortati, a concentrare un pattuglione di poliziotti e carabinieri schierati tutt’attorno, con mitragliette imbracciate e Beretta calibro nove impugnate col colpo in canna.
O qualche cena dalle parti di Mondello dove occorreva un tavolo a parte su cui depositare e mimetizzare con giacche e tovaglie la pila di mitragliette. Altre, ovviamente, erano imbracciate all’esterno. L’addestramento a guerre che, da recluta inconsapevole, ancora non conoscevo. Credo sia nata allora la definizione di “Toghe rosse”, a denunciare presunte appartenenze politiche di chi cercava soltanto certezza del diritto da parte dello Stato. Di rosso, in quel giro, a mia memoria e salvo l’autore, c’era soltanto il nome di battesimo del papà di Carmine Mancuso, l’ispettore di polizia eletto presidente del Comitato antimafia. Maresciallo Lenin Mancuso, assassinato accanto al giudice istruttore Cesare Terranova il 25 settembre del 1979 in un agguato di mafia. Poi Carmine si perse per strada, come molti protagonisti di quella stagione di forti idealità e di fragili certezze.
Antimafia lacerata
Quante parole a sproposito in quella stagione concitata! Persino l’amato Leonardo Sciascia, l’uomo di cultura che più e meglio aveva colpito la mafia facendola conoscere al resto d’Italia, che sembra tradire. Il 10 gennaio 1987 sul Corriere della Sera esce un lungo articolo su quelli che lo scrittore definisce “I professionisti dell’antimafia”. L’occasione è data dalla nomina di Paolo Borsellino a Procuratore capo di Marsala, battendo magistrati concorrenti con più titoli ma meno meriti antimafia. L’interpretazione corrente e la polemica che ne segue è devastante. Le carriere dell’antimafia militante, strumentalmente individuate da chi davvero vuol colpire, sono quelle dei magistrati e degli investigatori di prima linea che appaiono sovente sui giornali per le loro inchieste, col seguito di movimenti e partiti che nella lotta alla mafia si identificano.
Momento triste per il Paese. Credo che Sciascia volesse semplicemente denunciare il rischio che la mafia, struttura criminale finalizzata al potere, potesse determinare indirettamente un utilizzo dell’antimafia come contrapposto strumento di potere. Deve averla pensata così anche l’allora Consiglio superiore della magistratura, quando bocciò per pochi voti la nomina a capo dell’ufficio Istruzione di Palermo di Giovanni Falcone a favore di un altro candidato, Antonino Meli, con più titoli di anzianità e di carriera. Garantismo garantito e pool antimafia allo sbaraglio.
L’isolamento di Falcone
Sovente l’ingenuità di pochi fa da inconsapevole sponda all’intelligente malvagità di altri. Leonardo Sciascia, per sua sorte, se n’era andato tre anni prima, quando, il 19 luglio del 1992, il giudice Borsellino fu dilaniato da un’auto bomba, assieme a cinque uomini e donne che vigilavano su di lui. Come in una strada di Kabul ma nel cuore di Palermo. Accedeva soltanto 57 giorni dopo la strage di Capaci dove furono fatti esplodere Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Accadde quando mi era interdetta ogni attenzione a vicende italiane. Vivevo ormai altre guerre ma ricordo l’angoscia personale per la percezione di un Paese condannato e per i ricordi che mi legavano a quelle persone.
I rari incontri con Giovanni Falcone, sempre blindato e sempre cripticamente siciliano, la sola intervista che gli strappai in una di quelle estati di spari e di cattiverie. Paolo Borsellino, nella commedia delle parti ch’erano abituati a recitare, era la spalla che, sorridendoti, si tirava sempre da parte e ti lasciava a bocca asciutta. Dei due, solo riferimento personale che segretamente mi consola, le bellissime immagini dei due amici che passeggiano e confabulano tra loro con le loro eterne sigarette tra le dita. Riprese in un qualche vertice del Csm a Palermo. Uno zoom che sfuocava i contorni e faceva di loro due i soli protagonisti, grazie alla maestria della telecamera di Mauro Maurizi. Ora quella immagini sono patrimonio di tutti, icona ripetuta all’infinito di due persone normali costrette a diventare eroi soltanto per aver voluto far bene il loro mestiere.
Buscetta e ‘Don Tano Badalamenti
Con Roberto, per voi Tommaso Buscetta, parlavamo spesso di Falcone e di Borsellino. Argomento doloroso riservato soltanto alle serate tristi e alla conversazioni senza testimoni. Roberto era estremamente riservato rispetto ai suoi sentimenti. Quasi bacchettone, per certi versi. Intanto era credente e si segnava passando di fronte ad ogni chiesa. Poi non sopportava le volgarità, le parolacce, soprattutto in presenza delle donne. Fu uno sforzo terribile per me, abituato al linguaggio redazionale e di strada che non è scuola per educande. Parlavamo molto di Sicilia, spesso di mafia quasi con ritegno, ad esempio parlammo molto del suo amico Gaetano Badalamenti, uno dei pochi sopravvissuti della Cupola della vecchia mafia, che riuscii ad intervistare nel carcere di Memphis, Stati Uniti. Ma questa è ancora un’altra storia.
Come è un’altra storia quando, in una notte d’estate sulla piazza di Montecitorio, portone del Parlamento sbarrato e qualche raro passante, Masino Buscetta si lasciò scappare delle sue numerose visite dentro quel palazzo. Ricevuto da parlamentari in carica che bene conoscevano lui, o altri amici degli amici. Una storiaccia che forse non racconterò mai per intero. Di cui cito un dettaglio tra il buffo e il curioso.
-Stai parlando dei parlamentari noti, quelli già svelati, finiti sotto processo?
Il No in siciliano è una sorta di sibilo fatto con la lingua sui denti. Qualcosa di simile a NNTTZZ.
-Ma erano anche loro ‘soci del club’? (evitare sempre la parola mafia).
Per la risposta di Masino Buscetta servirebbe un altro capitolo di Non-libro. Che non so ancora se mai mi deciderò a scrivere.