
‘Fronte francese’ giugno 1940, azzardo finito male
Il 14 giugno 1940 le notizie sulle quali si concentrò l’attenzione del mondo furono l’ingresso delle truppe naziste a Parigi e il crollo della Francia. Le immagini della sfilata sotto l’Arco di Trionfo fecero passare in secondo piano che anche l’Italia di Mussolini, alleata di Hitler, aveva dichiarato guerra a Francia ed Inghilterra, ma si trattava comunque di una strana guerra, a cominciare dal fatto che il 10 giugno – quando dal balcone di palazzo Venezia si tenne il celebre discorso – di fatto la Francia era già in ginocchio. Nonostante nel paese fosse scoppiato il caos, il fronte francese sulle Alpi occidentali resistette però agli attacchi italiani infliggendo perdite e creando serie difficoltà all’avanzata che si rivelò fallimentare, soprattutto frutto di un piano frettoloso e improvvisato. Il giudizio che si sarebbe potuto trarre dall’esito di questa prima campagna sul successivo andamento della guerra avrebbe dovuto almeno far riflettere, ma purtroppo non andò così.
Nonostante la roboante dichiarazione di guerra del pomeriggio del giorno 10 per tre giorni sulle Alpi non accadde pressoché nulla, a parte scontri di pattuglie. Gli stessi ordini dello stato maggiore italiano erano stati a dir poco contraddittori: da una parte si ordinava un comportamento difensivo, ma dall’altra di varcare il confine laddove «il nemico non ritiene possibile si possa aprire un varco». Poiché erano state ammassate a ridosso delle Alpi due armate forti di centinaia di migliaia di soldati, pensare che potessero passare attraverso luoghi ‘impossibili’ richiedeva un notevole sforzo di immaginazione. In realtà infatti lungo le tortuose strade di montagna che conducevano ai valichi di frontiera si ammassarono lunghe colonne di soldati, di mezzi e di muli che furono fermate dal maltempo, da una frana e dalle artiglierie francesi che semplicemente conoscevano l’andamento obbligato delle strade. Per questi motivi la prima fase dell’attacco italiano cominciata il giorno 14 giugno si esaurì senza nulla di fatto il 17.
Nel frattempo francesi ed inglesi – nonostante i tedeschi fossero già dilagati verso la parte occidentale del paese – non erano rimasti inattivi: ne fecero le spese Genova, bombardata dal mare il 14 giugno, e Torino, bombardata da aerei inglesi il 12.
Ambedue gli episodi dimostrarono altri aspetti dell’impreparazione e dell’improvvisazione italiana: a Torino mancò una reazione della contraerea e a Genova, nonostante la vicinanza della munitissima base navale di Spezia, solo un vecchio cacciatorpediniere italiano uscì ad affrontare la squadra francese forte di ben quattro incrociatori. Date queste premesse si capisce come le operazioni sulle Alpi cessarono per qualche giorno nel disorientamento generale, ma con l’inconfessabile desiderio che i tedeschi paralizzassero del tutto la Francia per compiere alla fine semplicemente una passeggiata militare.
I combattimenti ripresero il giorno 21 dopo ordini perentori da Roma, ma già il giorno 23 la nuova spinta poteva dirsi esaurita, anche se nel frattempo era stata occupata la cittadina di Mentone. Il 24 a Roma fu firmato l’armistizio e le truppe italiane poterono schierarsi lungo una fascia di trenta chilometri al di la del confine grazie al ritiro dei francesi. La guerra era durata in tutto un paio di settimane e le giornate di combattimento effettivo erano state solo cinque, ma avevano dimostrato tutti i limiti dell’apparato militare italiano, dall’alto comando agli equipaggiamenti. A parte il significato militare della campagna delle Alpi, rimaneva quello politico e molti iniziarono anche a riflettere sull’inutile e controproducente dispendio di retorica guerresca. Dopo il crollo italiano dell’8 settembre 1943, Mentone annessa all’Italia tornò alla Francia senza discussioni e fu sufficiente che un prefetto francese si presentasse a riprenderne possesso.