Camminando nel bosco con le donne di HopHope

Camminando nel bosco con le donne di HopHope

Camminare nel bosco affatica i polpacci e rende leggero il cuore. Le scarpe sono robuste, ci sono sassi e ci sono tratti di fango, qua e là i rigagnoli solcano il passaggio. Neve adagiata sulle fronde e sugli spazi d’erba. Improvvisi si spalancano squarci di paesaggio, linee delicate di panorama che disegnano bellezza, passo dopo passo, uscendo da Montalcino verso la località Lume Spento.
Ciò che conosciamo di noi è solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa. Questa frase di Pirandello mi prende in mano, mentre in bilico sulle mie opinioni rifletto se sia meglio conoscere se stesso o dimenticare se stesso. Il freddo, intenso, rende opachi i suoni. Misteriose le pietre tacciono al passaggio. Sotto zero non cantano. Tante altre volte lo fanno, risuonano con la loro storia, accompagnano il vento sottile e quel coro mormorato ci dona l’armonia e respiriamo con un certo ritmo.

Riflessioni ai margini di un’esperienza inattesa. Decisiva e delicata. Camminare con le donne bellissime, forti e coraggiose di HopHope. Con Giuditta, Clare, Giusy, Emanuela, Susy, Tiziana e le altre. E gli altri. Da Montalcino a Montalcino, col freddo di gennaio, dodici chilometri di anello. Per far parte, quindi per scegliere da che parte stare e per essere partigiani e gentili, sorridenti testimoni della vita e della speranza. Della bellezza e dell’abitare, ma poeticamente.

Neanche il tempo di faticare un po’ e Giuditta, che è la portavoce di questo progetto, raccoglie le tante persone sotto un muretto a secco poco alto, come fosse un piccolo palcoscenico. Spiega il senso dell’esperienza di questa speranza, di quello che queste donne belle vogliono dire con l’attraversamento delle valli e dei paesaggi della loro esistenza, dell’infanzia, della memoria, del futuro.

HopHope è nato nell’ottobre del 2017. Alcune donne che avevano vissuto la malattia e la paura della malattia, che avevano attraversato il deserto della solitudine e degli sguardi obliqui sulla propria vita, hanno scelto la sovversione. Hanno scelto di riprendere il cammino. Con passione e coraggio, con gioia e determinazione. E il cammino non è stato solo metaforico. Hanno deciso di camminare davvero, di camminare nelle terre dell’infanzia, dell’amore, di godere ogni suono, ogni scorcio, ogni meraviglia. Con le altre. Con chiunque volesse. Dieci, venti, cento, mille. Per stare insieme e dare testimonianza. Col sorriso, con la fatica, con il pianto. Fianco a fianco.

Hanno scelto un uomo, spaesato emozionato, per leggere a tutti “Speranza” di Pablo Neruda.

Ti saluto, Speranza, tu che vieni da lontano / inonda col tuo canto i tristi cuori. / Tu che dai nuove ali ai sogni vecchi. / Tu che riempi l’anima di bianche illusioni. /
Ti saluto, Speranza, forgerai i sogni / in quelle deserte, disilluse vite / in cui fuggì la possibilità di un futuro sorridente, / e in quelle che sanguinano le recenti ferite. /
Al tuo soffio divino fuggiranno i dolori / quale timido stormo sprovvisto di nido, / e un’aurora radiante coi suoi bei colori /annuncerà alle anime che l’amore è venuto.

A un certo punto la voce si è crinata. Per un momento la metrica ha ceduto il passo. Il cuore in subbuglio ha percorso milioni di ore, di vita, di memoria e silenzi, allineamenti astrali e pensieri disordinati, convulsi, in un sistema sconosciuto di segni e mitologie, di riferimenti fertili e domande. Domande e domande.

Meglio la piccolissima parte che conosciamo o ciò che ancora non abbiamo afferrato di noi e della vita. Conoscere/dimenticare, affondare le radici nella terra fertile della sapienza, liberandoci dai lacci e lacciuoli del conformismo in ogni sua declinazione. Quindi conoscere e sapersi lasciare alle spalle regole di ferocia sociale. Di indifferenza, di sopravvivenza fatta di piccoli cinismi così vantaggiosi in apparenza da sembrare logici. Restare dentro il recinto di ciò che è certo o lasciar fluire la potenza sovversiva di tutto quello che ci appare inaspettato e che ci cambia. Dolcemente. Profondamente. Con furia e necessità.

La voce crinata, come il granello di sabbia che contiene il tutto, l’istante che ricostruisce ogni tempo. Poi solamente il camminare, in fondo alla fila, osservando e lasciando che ogni cosa prendesse il suo spazio. Con occhi spalancati e cuore leggero. Fatica, dolori ai piedi e gioia. Tenere gli occhi ben aperti, rende forti. È una condizione legata al coraggio, una condizione spirituale. Mi è saltata alla mente una frase di Peter Brook: “Ciò che conta non è l’ottimismo, è la speranza, che non è la stessa cosa. La speranza non può esistere senza coraggio”. E l’ho pensata e dedicata alle donne belle e coraggiose che indossano la maglietta rosa di HopHope. E creano futuro, col sorriso e la forza spettacolare di una idea semplice.
Per restare in contatto su qualcosa che possa essere essenziale per tutti.

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