
Ghedi, 18mila abitanti a 18 chilometri di distanza da Brescia. «Sembra un’oasi di verde nel disastro urbanistico industriale della Lombardia», spiega il collega e amico Emanuele Giordana. A leggere di Ghedi si scopre una chiesa del diciassettesimo secolo con un campanile del quattrocento, un palazzo comunale di origine medievale, logge e resti di un monastero francescano. Ma Ghedi = aeroporto militare, sede dei Diavoli rossi del 6º stormo dell’aeronautica, e – ecco il giornalista impiccione – anche molto altro. «In base a un accordo di “condivisione nucleare” l’Italia ospita da quasi settant’anni un certo numero di bombe atomiche americane». Si parla delle B61, che oggi dovrebbero essere una cinquantina. Ovviamente i dati sono coperti da segreto militare, ma per ‘voce diffusa’ una trentina sarebbero nella base statunitense di Aviano in Friuli-Venezia Giulia e altre venti nella base italiana di Ghedi.
‘Ufficialmente però quelle bombe non esistono’, riconosce lo stesso autore. Segreto a doppia utilità: per gli Usa a non fidarsi mai; per l’Italia e non mettere in imbarazzo governi sia internazionalisti che sovranisti di neo acquisizione, costretti ad ammettere di aver alcun potere in materia. Chi decide sulle atomiche in casa nostra sono altri: cessione di sovranità a decenza controllata, che conviene a tutti e due i protagonisti statali in commedia. Con qualche legittima ansia tra la popolazione, sulla base dell’ovvia per cui una eventuale bomba in partenza richiamerebbe ritorsioni di ritorno.
«Il tutto in un’area famosa per la produzione di armi: dalle mine antiuomo della Valsella (Castenedolo), alle armi leggere della Beretta (Brescia) fino alla famosa Rwm, l’azienda che fabbrica le bombe usate nello Yemen in Sardegna, e che come sede italiana ha scelto proprio Ghedi». Emmanuele Giordana racconta anche di movimenti pacifisti e di lotte culturali e politiche. Noi ci fermiamo ai dati.
«Esclusa la compartecipazione alle spese per l’aggiornamento delle bombe atomiche B61 (e per la loro integrazione sui velivoli nazionali), rimangono a carico degli alleati le spese per l’aggiornamento dei sistemi di protezione e stoccaggio degli ordigni presso le basi nazionali”, si legge nel rapporto Mil€x 2018 di Rete disarmo». E in Italia, scrivono gli analisti, la spesa complessiva di questo programma è di 23 milioni di euro, col dettaglio che la sola progettazione nel 2014 è costata alla difesa 215mila euro.
Poi ci sono gli aerei e le spese di manutenzione e aggiornamento dei velivoli nazionali dedicati al “nuclear strike”, i portatori di bomba atomica. I quaranta Tornado della base di Ghedi, spiega Francesco Vignarca, tra gli autori del rapporto. «Solo nel 2018 le spese sono state più di 88 milioni, mentre da qui al 2025, anno in cui gli aerei saranno sostituiti dagli F-35, supereranno il miliardo di euro».
Dai Tornado agli F-35 un bel miliardo di euro in sette anni, che non è male come cifra. «Ma oltre a queste -sempre il nostro pignolo Giordana- ci sono anche le spese per l’aggiornamento della cosiddetta capacità aerea non convenzionale, che ammontano a 254,6 milioni (16,5 milioni nel 2018)». E i piloti? Addestramento dei gruppi di volo del “nuclear strike”, ora sappiamo che sono i ‘Diavoli rossi’ del 6° stormo di Ghedi, difficili da quantificare. Ancora Vignarca che svela, “in genere l’addestramento di un pilota militare ha un costo che si aggira intorno al milione di euro”.
Infine il costo delle basi stesse, strutture, equipaggiamenti, protezione per il personale Usa da parte dei nostri carabinieri. «Secondo le nostre stime, la spesa direttamente riconducibile alla presenza di testate nucleari statunitensi sul suolo italiano, a Ghedi e ad Aviano, ha un costo minimo di almeno 20 milioni all’anno, ma complessivamente potrebbe arrivare fino a cento milioni», conclude Vignarca e certifica Emanuele Giordana sulla rivista Internazionale.
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