
Dedico questo pezzo in periodo festivo alla grandezza e alla bellezza della cultura popolare e in particolare alle donne che sovversive la incarnano. Meglio le donne, ribelli e belle, degli uomini di potere, azzimati e votati al conformismo della cultura, soprattutto quando questa cultura la appuntano come una spilletta sul doppiopetto dell’inutilità, di quel modo pratico di attraversare la vita senza voltarsi mai indietro, senza porsi un dubbio, come su binari dell’esistenza ad alta velocità. Veloci insensibili al passaggio tra macerie e rottami, disagio e livore, paure e oscurità.
Dedico in particolare queste parole alla poetessa pastora dell’Ottocento, Beatrice Bugelli, detta Beatrice di Pian degli Ontani, la più grande improvvisatrice di versi dell’Appennino tosco-emiliano, una meraviglia della nostra cultura. Analfabeta, componeva strambotti e rispetti, generalmente ottave in endecasillabi. Magnifica donna, sale della sua terra e della nostra esistenza.
Se tu sapessi la vita ch’io faccio,
Non la farebbe il Turco alla catena.
E ’l Turco porta la catena al braccio
E io la porto al cor per maggior pena.
E ’l Turco porta la catena al collo,
E io la porto al cor, ch’è maggior doglio.
E ’l Turco porta la catena al piede,
E io la porto al cor che niun la vede.
Questa ottava, in musica l’ha riportata con forza alla nostra attenzione è stata un’altra donna toscana, ribelle e gentile, Giuditta Scorcelletti. Ricercatrice di canti popolari e cantante, è l’erede di Caterina Bueno, con la sua voce e con la sua chitarra, con la sua umanità e potenza. Giuditta canta Beatrice Bugelli e Dina Ferri, anche lei poetessa pastorella, canta Sebben che siamo donne e si crea subito magia. Canta anche Violeta Parra, e lo fa in un rapporto stretto con il pubblico, in piccoli concerti conviviali in cui si ritrova il sapore dello stare insieme.
La cultura popolare è quell’insieme di delicatezze e poesia, di amore, identità e coscienza che delinea passo dopo passo un abitare civile sul territorio. Cultura sovversiva, perché porta in alto ciò che è in basso e non irradia dal vertice le prepotenze dell’industria culturale, sempre conservatrice. Cultura necessaria, capace di restituirci un rapporto profondo e fertile con la vita, con la natura, come nel caso di Dina Ferri, abitata dalla poesia, che scriveva i suoi versi in campagna guardando le pecore.
Vorrei fuggire nella notte nera,
vorrei fuggire per ignota via,
per ascoltare il vento e la bufera,
per ricantare la canzone mia.
Vorrei mirare nella cupa volta
fise le stelle nella notte scura;
vorrei tremare ancor come una volta,
tremar vorrei, di freddo e di paura.
Vorrei passar l’incognito sentiero,
fuggir per valli, riposarmi a sera,
mentre ritorni, o giovinetto fiero,
chiamando i greggi, e piange la bufera.
Un canto incompiuto il suo. Che sembra sgorgare dalla terra, da questa terra che difendiamo dalla brutalità dell’epoca e dall’ignoranza quella vera, fatta di ottusità e conoscenze conformiste inutilmente incollate alla vita. Così in vista della nascita del sole, portiamo avanti i segni di questa cultura dell’abitare poeticamente. Avete visto quanta bellezza e delicatezza c’è in una festa rurale. Da lì ripartiamo, non da un punto arretrato o da dimenticare, ma dall’avamposto culturale necessario.