
Contro Trump a colpi di Russiagate
Avendolo già fatto in passato, spero mi sia consentito esprimere dubbi piuttosto corposi circa gli ultimi sviluppi del cosiddetto “Russiagate”. Mi esprimo in modo sommesso, poiché è noto che andare contro ciò che la Rete considera vero comporta pericoli di isolamento (e non solo).
Leggo dunque in un servizio da New York, pubblicato su un quotidiano italiano, che in un rapporto preparato da un non meglio precisato servizio di intelligence Usa per il Senato degli Stati Uniti, e visionato dall’onnipotente Washington Post, emerge con chiarezza il pesante condizionamento russo nelle ultime elezioni presidenziali americane (e, per fortuna, nulla di simile pare essersi verificato nelle più recenti elezioni di midterm).
Com’è ormai noto, esisterebbe a San Pietroburgo una “fabbrica di troll”, ovviamente ispirata e protetta da Vladimir Putin, colpevole di aver indirizzato il voto americano verso Donald Trump, e di aver messo al contempo in cattiva luce i suoi avversari e, in particolare, la limpidissima Hillary Clinton.
Per quanto sembri incredibile, colossi mediatici quali Google, Facebook e Twitter si sarebbero – inconsapevolmente – prestati alla grande manovra di disinformazione, senza per l’appunto accorgersi di quanto stava accadendo. I troll russi avrebbero quindi creato una miriade di profili falsi che sostenevano in modo subdolo il tycoon newyorkese e screditavano con notizie fasulle i suoi competitors democratici.
I suddetti troll russi sarebbero stati così abili da indurre una parte consistente dell’elettorato afroamericano (tradizionalmente democratico) a votare Trump o a disertare addirittura le urne. Ecco spiegato l’arcano di un’elezione che a tanti risulta tuttora inspiegabile. Senza i troll di San Pietroburgo (e di Mosca) il tycoon le avrebbe buscate, e la candida Hillary Clinton avrebbe vinto a man bassa.
Qualche dubbio? Perbacco, ce ne sono a iosa! Innanzitutto Robert Mueller, procuratore speciale per le indagini sul Russiagate, sta gongolando. Dopo aver già incriminato parecchi cittadini russi per aver esercitato “influenze esterne” nelle ultime elezioni Usa, si trova ora in mano uno strumento micidiale per affondare di più i colpi.
Del resto, chi osa mettere in dubbio i risultati raggiunti dalla Oxford University Computational Propaganda Project, che ha realizzato lo studio di intelligence anzidetto? E poco importa se il suo altisonante nome fa subito venire in mente l’ormai celebre Cambridge Analytica, fondata assieme ad altri da Steve Bannon, e finita sotto inchiesta per motivi (politici) opposti.
La sensazione di essere presi in giro cresce, anche se, purtroppo, come si diceva dianzi le notizie fasulle pompate ad arte nel web acquisiscono ben presto lo status di verità rivelate e non suscettibili di critica. Lo dico ancora sommessamente, anzi con un bisbiglio. Nel caso specifico alcuni circoli molto importanti di Washington, con il supporto di settori di Fbi, Cia e delle forze armate, si sono accorti che l’impresentabilità di Trump non basta per eliminarlo.
Si ricorre allora a un metodo che in Italia conosciamo molto bene. Se non puoi eliminare un avversario politico con le urne, ricorri alla via giudiziaria e i risultati arriveranno presto. Alla fine, può succedere che il ricorso alla via giudiziaria travolga anche i suoi fautori, come da noi è spesso accaduto. Ma poco importa poiché, per l’appunto, l’essenziale è ottenere il risultato.
Putin reagisce alle mattane del circo mediatico Usa con sorrisi ironici e alzate di spalle, e non si vede cos’altro potrebbe fare. I cinesi, se verranno messi ancor più alle strette, potrebbero reagire in modi più violenti facendo leva sulla grande quota di debito Usa che detengono.
La morale della favola, però, è una soltanto. Gli Stati Uniti sono in questo momento un Paese terribilmente diviso, e l’attuale Presidente non è certo una figura unificante. Come è spesso accaduto in passato, cercano colpevoli stranieri per non fare davvero i conti con i loro problemi interni.
Ungheria sovranista e forcaiola, ‘legge schiavitù’ rabbia in piazza