
Certo che sono preoccupato. Il peggio del peggio sta prendendo coscienza del proprio valore politico e sociale, e dilaga. Con particolare effetto in tv, ma ovunque, su ogni piattaforma mediatica si coglie questo fiorire di inutilità, livore, citazioni a casaccio e ottusità che rende il mondo che ci circonda peggiore. E razzismo, serpeggiante, astratto, implicito, fascisteggiante.
Doloroso.
Più che una cultura è una mentalità. Forgiata con tenacia, come un ponte sospeso sul vuoto, per delineare non tanto ciò che accade, ma ciò che è necessario che accada. Una mentalità oscena, triviale e crudele che si irradia e che tende a convincerci che il pessimismo è l’unica strada, insieme alla lamentela fissa e alla rabbia social, mentre la vita, la lotta, l’azione, sono elementi ormai inutili e inutilizzabili.
Così funziona. La mentalità è qualcosa che precede il modo di agire della massa. La guida in atteggiamenti di conformismo crescenti. Viaggia sui canali televisivi, sui media, sui social, al cinema, sui libri. Crea futuro. Da oggi? Da decenni, per arrivare allo stato odierno.
Come dire: è il pop, bellezza. Quella inarrestabile coinvolgente azione culturale e politica che discende dall’alto verso il basso, con tutti i suoi ovvi fraintendimenti. Che si presenta come il diritto di chi non possiede strumenti culturali all’ignoranza come vessillo, e quindi ad agire secondo uno schema preconfezionato che implica autostima. Attraverso il vestiario, lo slogan, la canzone, il video. Attraverso il fantastico mondo del pop in ogni sua declinazione.
Il pop come distanza dal mondo reale, come guida in uno spazio virtuale dove non è importante il senso delle cose e tanto meno il fatto che esistano: è suggestione e disimpegno, fine della fatica del pensiero, della lettura, del pensiero critico, della conoscenza del mondo a favore di una virtualità sensoriale il cui fine unico è la mancanza di fine. Quindi, come ci insegnavano i maestri, quando non esistevano le chat, ma valeva solo la verità dell’incontro: disimpegno, indifferenza, futilità e divertimento hanno come unico fine ammesso la perpetuazione dell’eterno esistente.
Non parlo solo dei vagheggiatori scientifici da Google o dell’arroganza dell’imbecillità. Sullo stesso terreno agiscono anche quelli che dovrebbero tenere salda una visione diversa del mondo. E invece, interpreti della stessa modalità, con più arguzia intellettuale e successo mediatico, oppongono a questa visione del mondo una lieve e parallela alternativa. Sempre da arena mediatica e sempre inutile per una visione del mondo diversa, che mostri un’alterità reale.
La cultura popolare è un’altra cosa. Non è la declinazione sulle masse delle scelte prepotenti dell’industria culturale, è altro, è la cultura alternativa, propria, delle classi subalterne. Di chi ha un qualche interesse a sottrarsi dal giogo dell’immutabilità del sistema. Siamo tutti classe subalterna in questa fase storica di fascistizzazione e diseguaglianze crescenti. Si tratta dell’espressione propria di una comunità, della volontà di non arrendersi alla mancanza di senso, considerando e impegnandosi perché le cose abbiamo un senso. Perché al pessimismo in tutte le sue declinazioni, pavido, obbediente, paraculo, indifferente, si possa sostituire un pensiero che si faccia azione nella realtà. Che si muova nella vita di ogni giorno, nei quartieri, nei paesi, nei luoghi di lavoro.
Per questo, meglio una serata in un pugno di persone a fare cultura ascoltando una antropologa cantante che racconta la poesia di una pastora analfabeta in ottava rima che l’ennesimo teatrino scopiazzato dalle modalità di internet. Meglio battersi contro una ingiustizia piccola, ma sul territorio, che cliccare per la milionesima volta nel virtuale un like contro un’ingiustizia globale. Meglio due ore a discutere di qualcosa intorno a un tavolo che due ore a sproloquiare inutilmente sul web.
La cultura popolare è aperta e rivoluzionaria. Perché ha come fine la sovversione delle regole che ci imbrigliano in un sistema di produzione scemotta di inutilità prive di senso. Che hanno proprio in questa mancanza di senso la propria potenza. Ma non è data dall’alto, quindi è costruzione faticosa e quotidiana, in un tempo storico del genere, per ristabilire coscienza e bellezza, azione e necessità, distante da ogni idea di successo o di visibilità mediatica, con i piedi sul territorio e coraggio. Ecco, coraggio.
A schiena dritta: su elitarismo culturale e anti-intellettualismo