
Tanti rivoluzionari, ma zero rivoluzioni in giro. Mi viene in mente questa frase, riflettendo col mio amico barbiere, maoista alchimista rurale, sul fatto che ormai tutto è rivoluzionario, tutto è eccentrico, dissacrante e creativo. Tutto fuori dalle regole. In un meccanismo culturale e paradossale in cui è proprio ogni forma di trasgressione catalogata e prevedibile a rappresentare la norma, il senso comune. Facile riferirsi all’arte, alla musica, al teatro. Facile pensare a quanto siano tutti uguali, quasi sempre di importazione acritica, i fenomeni di costume che ci ostiniamo a far rientrare nelle categorie di cui sopra. Meno facile affrontare a mani nude il conformismo progressista, l’idea che non importa comprendere, basta adeguarsi, ricavarsi un piccolo spazio di luce di ribalta offrendo al prossimo frammenti di banalità, ma scintillante.
Non ci resta che la semplicità. La sentenza disincantata è il forte del maestro delle forbici. Se il fine di tutto questo adeguarsi, di questo pecoroname trasgressivo culturale è il successo, che si certifichi il valore morale dell’insuccesso. Se dissacrare è come mettersi il dopobarba, tanto vale che resistere e ricordarsi chi siamo, tornare al sacro che è in noi che è nella vita, nella bellezza e nell’insieme di cose che sono nel nostro abitare. Se il valore che diamo alle cose importanti o meno è dato dal risvolto economico di quelle cose, meglio abbandonare tutto e cercare una via diversa, per poter almeno continuare a dire di essere vivi e non imbalsamati e umanamente sotto formaldeide come uno squalo di Hirst.
Che poi mentre si lancia in queste invettive col sorriso, conscio di suscitare qualche eritema agli amanti delle certezze assolute (sempre sotto formaldeide), ecco che mi trovo allegramente a battere le mani a quegli equilibristi del senso politico e culturale che, ignorando giustamente ogni riflessione sul tema, ottengono dalle contraddizioni del tempo il loro guiderdone. Bravi che sono con quella consapevolezza fisica ed etica che consente una perfetta linea di galleggiamento. A prescindere, come diceva Totò.
“I cantori e la resa. Che poi se uno si ferma a riflettere sulle sicurezze assolute dei cantori intellettuali del tempo, resta basito su un elemento: tutta questa sicumera, tutta questa arroganza e tutta l’ironia solamente per partorire il topolino culturale che abbiamo tra i piedi in questa società? Tutta questa potenza di fuoco di giornalisti, scrittori, artisti stravaganti, marketing, per avere un quadro così chiaro e luccicante di una resa incondizionata culturale (sociale, umana…)?”
Visto che siamo in tema di autocitazioni, ripenso a un pezzo che ho dedicato tempo fa a un noto giornalista abilissimo in questo particolare stile, sia su carta che nelle arene mediatiche. Un galleggiatore spettacolare e stimabile per le scelte familiari accuratamente efficaci. Apro le virgolette. “Su quei divani, nelle notti insonni passate al lume della rivoluzione possibile, deve per forza essere successo qualcosa di riconducibile alla scoperta, tra i cuscini rossi e ricamati, di un segreto iniziatico: come riuscire a galleggiare sempre e ovunque, a destra e a sinistra. Appoggiando Bersani ed essendo renziano, di destra e di sinistra (ma dai, non esistono più…), con i cassintegrati, ma per i padroni. C’è di più. Un giorno quando verrà scritto un saggio sull’informazione italiana negli anni di Pigi Battista, il titolo sarà: giornalismo e tappezzeria. Sottotitolo: la rivoluzione può essere anche un pranzo di gala, basta che la lista degli invitati sia quella giusta”.
Già, l’ho scritto cinque anni fa. Quando ancora i gialloverdi non esistevano, chiosa il maoista ricamando la barba. E oggi, scoprendo la vocazione giornalistica del tipo alla pattuglia governativa, sorrido. E penso alla cultura imbalsamata, alle voci libere e famose, ma sotto formaldeide. All’idea che la rivoluzione, per alcuni, per quelli che ci hanno trascinato in questo baratro ridicolo, è stato un pranzo di gala con i giusti commensali.
Non mi sorprende, ma mi piace la storia del pranzo di gala. Il barbiere ha mano delicata col suo rasoio. Quello che mi fa dolore è vedere che gli eccentrici e creativi rivoluzionari del pranzo di gala sono tutti lì a spiegarci ancora oggi come va il mondo. Non capendo che grazie alla macchietta che rappresentano, lo capiamo abbastanza bene come va. Ma anche grazie a loro sappiamo che dobbiamo spaccare l’inutilità in mille pezzi e restituire al mare aperto lo squalo che ci divora dalla sua teca di vetro, imbalsamato e triste, feroce e inutile come l’arte e come la cultura quando sono innocue sotto formaldeide.
Bella questa cosa di Hirst. Già, risponde, pensa a quegli imbecilli di collezionisti che si sono trovati quel marciume gigantesco, la metafora del turbocapitalismo applicato alle speranze umane, in appositi giganteschi saloni puzzolenti. La storia riserva spesso finali imprevedibili. Paga e vai che si è fatto tardi.