Restiamo umani, azione necessaria nella comunità

Restiamo umani. L’abbiamo scritto su uno striscione con i pennarelli di tutti i colori, poi lo striscione è finito nelle mani dei bambini e delle bambine che hanno deciso di completare l’opera, con dediche e disegni. Con poesia e delicatezza. Davanti agli occhi dei genitori, dei viandanti, dei passanti, degli uomini e donne sorpresi e felici, in un pomeriggio piovoso di fine settimana.
Un piccolo gesto. Un soffio di dolcezza in un mare di conformismo ottuso. Ma questa comunità è così, viva e rurale, lontano dalle mode e dalle imposizioni del tempo. Ha ancora la semplicità di mettere insieme lavoro e volontariato, idee e azioni, per generare un momento simbolico e comunitario.

Stiamo parlando di San Quirico d’Orcia. Un paese di 2600 abitanti cuore della Val d’Orcia. Una danza e una manifestazione in strada, con merenda e abbracci finali. Senza alcunché di virtuale, con la potenza del passaparola, con la gentilezza di chi avverte il vicino o l’amico che sta accadendo qualcosa di speciale.
Così, avendo questo nel cuore, penso alla cultura. A quell’insieme di azioni, pensieri, occasioni e bellezza che costruiscono l’abitare sui territori. Abitare poeticamente e civilmente, aggiungerei. Che senso ha, mi chiedo, se replica esattamente i dettami di cose già viste e fatte? Che senso ha ribadire in piccolo azioni culturali che avvengono in altre latitudini, per altri scopi e per con concetti di base diversi?
Già, che cosa vuol dire fare cultura su un territorio. Non fare teatro, fare musica, fare convegni o presentazioni, condividere eventi, far rimbalzare citazioni culturali: fare cultura. Per me fare cultura vuol dire: fare del pensiero un’azione. E vuol dire anche: coltivare cultura. Costruire uno spazio fertile, spalancare i recinti, aprire le porte e le finestre, abbattere le barriere. Non nelle chat, non nei salotti intimi. Lì per motivi diversi non occorre. Nella vita, nell’agire quotidiano, nell’incontro con l’altro, nella convivialità, lungo le strade meno battute della cura, dell’attenzione, della convivialità.
Non vuol dire scegliersi. Neanche appartenere. Vuol dire correre un rischio, sporgersi sul confine del senso, non giudicare, non perdersi nel viavai frenetico delle cose di ogni giorno senza mai un dubbio… Ecco, nel dubbio e nel conflitto vedo segni interessanti.

E la difficoltà è proprio in questo. Nell’appartenere senza vie d’uscita. Nel coltivare il proprio e mai il comune, l’utile e non il conviviale. Come se l’idea di cultura potesse solo e solamente sostenere un’ascesa, un successo, un vantaggio privato che non intacchi, se non come ricaduta secondaria, il bene comune.

Per questo racconto del ballo in strada, con le nuvolone all’orizzonte e il profilo splendido della pieve di Sante Marie. E dedico questa riflessione a chi ogni giorno si rimbocca le maniche per rendere l’abitare meno cinico, per portare avanti a piccoli passi nell’agire comunitario la rivoluzione dell’epoca, la rivoluzione necessaria. Parafrasando Naomi Klein affermo che prendersi cura, delle persone e delle cose, è un concetto assolutamente radicale. E scelgo le parole di Simone Weil per concludere: “L’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità”.

Ps
Restiamo umani contiene un pensiero per Vittorio Arrigoni, che concludeva con questo adagio ogni suo articolo, a volte ripetuto nella sua forma inglese Stay Human, e per sua madre Egidia Beretta, dolcissima combattente che tiene accesa la luce della memoria.
Necessario poi ricordare qualche nome, almeno quello di chi avuto l’idea, Antonella, e quelli che l’hanno realizzata con noi: Claire, Daniela, Federica, Linda, Luca, Valentina.

Per non smettere di costruire mondi umani

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