
Blasfemia. Rischiare la vita o una sanzione penale significativa per una bestemmia o per quella che viene definita blasfemia. Molto probabilmente in un mondo dove la maggior parte delle società sono ormai secolarizzate, la percezione di una tale eventualità dovrebbe risultare molto attenuata. La realtà però è diversa. La blasfemia è reato sia in paesi retti da regimi teocratici ma anche laici.
In alcuni stati si tratta di un crimine vero e proprio che comporta la pena di morte. E’ il caso del Pakistan balzato alla ribalta delle cronache per la vicenda di Asia Abibi, una donna cristiana accusata di aver offeso Maometto durante una discussione avvenuta 8 anni fa in una zona del Punjab.
Incarcerata, era stata condannata a morte. Dopo un calvario giudiziario durato diversi anni è diventata un caso politico. La pressione mediatica, le campagne internazionali e soprattutto l’inconsistenza delle accuse hanno impedito che venisse giustiziata. Il 31 ottobre scorso la pena capitale è stata annullata. Ma l’epilogo ha creato fortissime tensioni in Pakistan.
Proteste di piazza organizzate dal partito integralista sunnita Tehreek-e-Labaik. Per fermare la quasi rivolta il governo ha concesso che Asia Bibi non potrà lasciare il paese fino a quando la Corte Suprema non avrà effettuato un riesame definitivo della sua sentenza.
Il governo e la giustizia pakistana hanno dunque ceduto agli islamisti? Forse, ma intanto un duro colpo è stato inferto alle fazioni più radicali. L’influente studioso religioso ed ex senatore Maulana Samiul Haq , anche conosciuto come “padre dei talebani”, è stato pugnalato a morte nella sua casa a Rawalpindi. Haq è stato il fondatore del famoso seminario di Haqqania, dove dozzine di leader afghani hanno ricevuto la loro istruzione. La polizia sta ancora indagando e si cerca ora di capire quali riflessi potrà avere questo avvenimento su una situazione già incandescente.
Ma se la blasfemia è in motivo di scontro estremo in Pakistan, anche in altri paesi il pericolo per chi è accusato di questo reato è reale. Solo una settimana fa in Indonesia, il paese islamico più popolato al mondo, una donna cinese e buddista è stata condannata a 18 mesi di reclusione. La colpa è risibile, aveva protestato per un richiamo alla preghiera a volume troppo alto. Più fortunato Cheick Ould Mohammed Mkhaitir, il blogger che in Mauritania era stato messo in prigione nel 2014 per un articolo considerato blasfemo ma ora rilasciato.
L’Arabia Saudita detiene il triste primato del più alto numero di condanne a morte al mondo e tra i capi di accusa più comuni c’è proprio la blasfemia. Anche in Turchia si rischia il carcere come nel caso di Fazil Say, il pianista conosciuto internazionalmente per il quale nel 2013 erano stati chiesti ben 10 anni di carcere e liberato solo dopo una lunga battaglia legale. Proteste degli integralisti anche in India nei confronti dell’attrice Priva Verrier rea di atteggiamenti “blasfemi” in un suo film.
Pur non essendo un crimine, anche nei paesi non islamici può capitare di incorrere nelle maglie della giustizia. Negli stessi Stati Uniti aver pronunciato frasi che non offendono la religione, può però essere considerato un comportamento contrario alla Costituzione. In Europa solo poco tempo fa si è votato in Irlanda proprio per abolire il reato di blasfemia. La maggioranza della popolazione si è espressa in maggioranza per cancellare questo tipo di accuse dal codice penale.