
Oltre Gaza, la questione palestinese (parte seconda)
Al di là delle narrazioni di israeliani e palestinesi, una sintesi estrema di quanto insegna la Storia con precise delle persone presenti nel corso del tempo, della loro attività reali alle soglie della storia moderna.
Nei 4 secoli che vanno dal 1500 alla prima guerra mondiale (1914), la Palestina faceva parte dell’Impero Ottomano: era quindi governata dai turchi ed era abitata in maggioranza da popolazioni arabe, che parlavano arabo e professavano la religione islamica.
Per il resto, il 20-25% erano arabi cristiani e l’8% ebrei.
Con la prima guerra mondiale l’Impero Ottomano è sconfitto e smantellato per cui le due grandi potenze europee, Francia e Inghilterra, si spartiscono il Medio Oriente: la Palestina e la Giordania vanno sotto il controllo (mandato) britannico, la Siria e il Libano sotto quello francese, a seguito degli accordi segreti Sykes-Picot del 1916, senza comunicarlo agli arabi della Palestina cui, un anno prima avevano promesso, se avessero combattuto contro gli Ottomani, uno Stato “pan arabo” e con questa promessa traditrice aveva ottenuto la fedeltà del 90% dei musulmani.
E’ in questa fase che la Palestina assume gli odierni confini: a Nord il Libano e la Siria, a Est la Giordania, a Sud l’Egitto.
Il problema nasce alla fine dell’800, quando un giornalista ebreo austriaco, Teodor Herzl, afferma la necessità di costruire uno Stato per gli ebrei in Palestina perché “solo con tutta terra degli avi promessa da Dio, gli Ebrei potranno sentirsi uguali a tutti gli altri popoli e non essere discriminati”, come era avvenuto in Europa per secoli da parte delle popolazioni europee e in particolare nell’Unione sovietica.
Da queste idee nasce il sionismo, che si prefigge di creare uno Stato fondato sulla religione e sulla razza, ma in una terra già abitata da altre persone. In Palestina, nel 1895, c’erano infatti 644.000 arabi (92%) e 56.000 Ebrei (8%). Nonostante ciò uno degli slogan del movimento sionista è stato “ una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Con il sionismo comincia una lenta immigrazione di ebrei in Palestina, inizialmente molto lenta perché solo una minima parte degli ebrei era disposta a lasciare i Paesi in cui abitavano da secoli e di cui si sentivano cittadini. Per la costruzione di un nuovo Stato, erano però indispensabili tre elementi fondamentali: il territorio, la popolazione e l’accordo con una potenza mondiale che permettesse la realizzazione di questo progetto. I fatti storici del ‘900 favorirono tutte queste condizioni.
La grande occasione si presenta con il Mandato Britannico: la Gran Bretagna, grande potenza mondiale di allora, passa a controllare la Palestina dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano e nel 1917 con la “Dichiarazione Balfour” approva e aiuta il progetto sionista. L’Inghilterra era di fatto interessata a creare, in quelle terre abitate in maggioranza da arabi, una colonia di coloni europei filo-britannici, che le agevolasse il controllo sul Canale di Suez, strategico per i suoi traffici. Per favorire l’immigrazione ebraica in Palestina, gli inglesi promulgano leggi e regolamenti che favoriscono l’acquisizione di terre da parte degli ebrei europei e riconoscono inoltre all’Organizzazione Sionista la giurisdizione sulla popolazione ebraica. Le popolazioni arabe sono invece svantaggiate in ogni modo, anche attraverso la loro suddivisione in piccole comunità e lo strangolamento della loro economia. L’immigrazione, grazie a tali politiche, aumentano e vengono costituite le prime colonie agricole (Kibbuz). Nel 1929 gli ebrei sono già saliti a 170.000.
Il Nazi-Fascismo in Europa, con le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei, determina un ulteriore incremento dell’immigrazione e fa sì che migliaia e migliaia di ebrei emigrino in Palestina. Dal 1932 al 1938, in soli 6 anni, emigrano in Palestina il doppio di quelli che erano emigrati nei 130 anni precedenti. Nel 1936 gli ebrei sono già 400.000. Aumenta quindi sempre più l’acquisizione di terre: delle nuove terre però solo il 5,6% del territorio sottratto ai palestinesi viene comprato, il resto viene occupato (nel 1925 solo il 7% era in possesso degli ebrei).
A partire dagli anni ’30 il rapporto Palestinesi Ebrei, sino ad allora pacifico, diventa conflittuale, a causa del massiccio arrivo degli ebrei, dell’occupazione di molte terre arabe, della politica inglese di discriminazione delle popolazioni arabe e dall’intenzione dichiarata da parte ebraica di soffocare l’economia palestinese (con discriminazione dei palestinesi, cui viene impedito di lavorare).
Le tensioni sfociano nell’Intifada (1936-39), la lotta della popolazione araba nel disperato tentativo di arrestare la spoliazione della propria terra, che si realizza in uno sciopero generale di 6 mesi, attentati e scontri armati quotidiani tra palestinesi, immigrati ebrei, europei e inglesi. La grande rivolta araba viene repressa nel sangue dal governo inglese, che manda in Palestina 20.000 soldati. Nel 1993 l’Inghilterra per ridurre le tensioni nell’area e per assicurarsi le fonti petrolifere è costretta a fare concessioni ai Paesi Arabi, per cui tenta di limitare l’immigrazione degli ebrei nell’area. Entrano allora in azione i gruppi paramilitari ebraici (Gruppo Stern, Irgun e altri, con a capo alcuni dei futuri capi di Stato israeliani: Begin e Shamir).
Mettono in atto azioni terroristiche dirette contro l’Inghilterra (l’attentato all’Hotel King Davis fa 91 vittime), contro le Nazioni Unite (viene ucciso il suo rappresentante a Gerusalemme, il conte Falk Bernardot) e contro palestinesi. Sono compiuti massacri della popolazione civile per indurla ad abbandonare case e terre, subito occupate da immigrati ebrei.
La Nazioni Unite per porre fine alle tensioni nella zona, propongono come soluzione il “Piano di Spartizione delle Palestina” (Risoluzione 181) secondo cui si sarebbero dovuti formare due Stati indipendenti con:
il 56,5% del territorio agli Ebrei (che erano 500.000, il 30% del totale);
il 42,5% ai Palestinesi (che erano più del doppio, 1.150000, il 70%)
La città di Gerusalemme, dentro il territorio palestinese, sarebbe diventata zona internazionale controllata dalle Nazioni Unite. I due Stati sarebbero stati misti, ma mentre in Israele popolazione araba ed ebrea sarebbe stata quasi pari, nello Stato Palestinese gli ebrei sarebbero stati in netta minoranza.
Il piano viene accettato dagli ebrei ma non dai palestinesi e dagli altri Stati Arabi, che non accettano l’evidente squilibrio nella divisione della terra a vantaggio degli ebrei, né di dover pagare – per conto degli europei – le tremende colpe dello sterminio attuato dal nazi-fascismo contro la popolazione ebraica.
All’alba del 9 aprile 1948 le truppe dell’organizzazione paramilitare terroristica Irgun, guidate da Begin (futuro capo di stato in Israele) circondano e distruggono il villaggio arabo di Deir Yassin (a Ovest di Gerusalemme): vengono uccise 250 persone, colte di sorpresa, prevalentemente donne e bambini. Un’azione pianificata per diffondere il terrore tra le popolazioni palestinesi e spingerli alla fuga di massa. E’ l’inizio della massiccia diaspora palestinese, che prende il nome Nakba (catastrofe). Quelli che seguono saranno mesi di terrore. Quasi 200.000 palestinesi fuggono dai villaggi della Galilea e dalla fascia costiera attorno a Jaffa.
Il 15 maggio 1948 gli ebrei proclamano la costituzione dello Stato d’Israele.
In seguito alla proclamazione unilaterale da parte ebraica dello Stato d’Israele, una coalizione di Stati arabi della Regione (Egitto, Giordania, Siria, Iraq) muove guerra al nuovo Stato.
Durante la guerra l’esercito israeliano approfitta per aumentare le azioni militari contro la popolazione civile palestinese, i cui villaggi sono distrutti in modo da provocarne l’esodo di massa. La guerra si conclude con la vittoria di Israele, rifornita dalla potenze occidentali e quindi molto meglio armata degli stati arabi.
La vittoria consente al nuovo Stato Sionista:
di occupare molto più territorio di quello assegnato dalle Nazioni Unite, Israele si prende il 78%, mentre ai palestinesi resta il 22% della Palestina: La Striscia di Gaza sotto il controllo dell’Egitto, la Cisgiordania (West Bank) e Gerusalemme Est sotto il controllo della Giordania;
di espellere gran parte della popolazione araba dal territorio conquistato. Durante la guerra vengono espulsi 750.000 palestinesi da 450 villaggi sparsi nell’attuale Stato d’Israele. Oggi questi villaggi non esistono più perché furono completamente resi al suolo.
E’ allora che nasce il problema dei profughi palestinesi: molti arabi si rifugiano infatti nel campi profughi in Libano e in Giordania, mentre i 200.000 palestinesi rimasti all’interno dello Stato d’Israele vengono esportati e discriminati. L’11 dicembre 1948 l’ONU adotta la Risoluzione 194 che prevede il diritto al rientro dei profughi palestinesi in Palestina, oltre a un risarcimento per le perdite di terre e casa, prevedendo compensi per chi non desiderano esercitare tale diritto.
La questione israelo-palestinese, da quell’anno fino ai nostri giorni, riguarderà sempre due aspetti: il territorio e la popolazione.
Da una parte, gli israeliani che tentano di conquistare sempre più territorio e di riempirlo di popolazione ebraica, creando nuovi insediamenti e favorendo l’immigrazione ebraica da tutto il mondo.
Dall’altra parte, i palestinesi che tentano di riconquistare il territorio perduto, non andare via e non farsi cacciare. Una resistenza che porta, nel 1964, alla nascita dell’ “OLP” (Palestinian Liberation Organization) e del movimento di resistenza palestinese al “Fatah” (Harakat al Tahir, al Watani al Filastini) guidato da Arafat.
Con una guerra lampo di soli sei giorni l’esercito israeliano sconfigge i male armati eserciti di Siria ed Egitto e conquista tutta la Palestina, sottraendo le Alture del Golan alla Siria e il deserto del Sinai all’Egitto; si annette inoltre la Parte Est di Gerusalemme e sposta la sua capitale dal Tel Aviv a Gerusalemme.
Durante la guerra Israele provoca pesanti distruzioni nei villaggi arabi (molti rasi al suolo) ottenendo l’esodo di altri 2000.000 palestinesi dai territori occupati.
Rispetto alle cause del conflitto, vi sono versioni discordanti.
All’epoca l’esercito israeliano affermò di aver reagito a sospetti movimenti di truppe egiziane. Più tardi vari generali e storici israeliani ammettono che si trattò in realtà di un attacco a sorpresa, preparato da molto tempo allo scopo di espandere ancora di più una il territorio dello Stato ebraico.
Con la Risoluzione 242, le Nazioni Unite dichiarano che Israele deve ritirarsi dal territorio sottratto ai palestinesi ma Israele non si ritira e stabilisce un’occupazione militare stabile in tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che da allora prendono il nome di “Territori Occupati”, Si verifica così un nuovo esodo di palestinesi che ingrossano la massa di profughi del conflitto del 1948.
Nasce allora la strategia di occupazione israeliana attraverso gli insediamenti di coloni ebrei nei territori occupati, intorno a Gerusalemme Est e lungo il fiume Giordano. Una strategia adottata da tutti i governi israeliani che si sono succeduti da allora fino a oggi e che viola la Risoluzione 242 dell’ONU. Una tattica volta ad appropriarsi di più territorio possibile con all’interno meno palestinesi possibile e che costituisce uno degli ostacoli maggiori alla via del negoziato.
L’OLP riunisce tutti i gruppi della resistenza con Arafat presidente fino alla sua morte l’ 11 novembre 2004 in Francia.
Nel 1974 si verifica una svolta diplomatica: Arafat è invitato all’ONU come rappresentante del popolo palestinese; il Consiglio Nazionale Palestinese di fatto considera ormai lo Stato d’Israele un fatto storico e chiede di costruire un proprio Stato indipendente a fianco di quello israeliano, nei Territori Occupati (Gaza e Cisgiordania, ossia il 22% della Palestina storica).
Il 6 giugno del 1982 Israele invade il Libano per eliminare la resistenza palestinese e i suoi leader rifugiati in quel Paese (dove si trovano molti nei campi per i profughi palestinesi).
Ad agosto, l’OLP accetta il cessate il fuoco e lascia Beirut in cambio dell’incolumità per la popolazione palestinese. Gli israeliani però proseguono i bombardamenti sugli insediamenti palestinesi.
Il 16 settembre, miliziani falangisti libanesi, alleati di Israele, penetrano nel Campo di Sabra e Shatila e per 40 ore compiono massacri e violenze con 3.000 fra morti e scomparsi. Tutto avviene sotto la supervisione israeliana (e del futuro capo di Stato Sharon): i campi sono illuminati a giorno e vengono bloccate tutte le vie di accesso, per impedire sia di scappare sia per controllare cosa sta avvenendo. In Libano gli israeliani saccheggiano anche il Centro di ricerche palestinesi distruggendo 25.000 volumi e manoscritti, al fine di annientare non solo l’OLP, ma qualsiasi segno di identità e della storia del popolo palestinese. I crimini e le responsabilità israeliane in Libano saranno riconosciute da una commissione del parlamento israeliano nel 1983, ma i responsabili manterranno i loro posti di potere e Sharon, espulso dalla Difesa sarà poi nominato capo del Likud, di estrema destra e poi premier.
Tra il 1987 e 1992 si sviluppa la prima Intifada (in realtà è la seconda perché la prima è del 1936- 1939) nei Territori Occupati. Scoppia dopo 20 anni di occupazione, che ha prodotto 139 insediamenti abitati da 60.000 coloni. E’ una rivolta spontanea, non armata, di massa popolare, con manifestazioni, scioperi, disobbedienza civile, chiusura di negozi, boicottaggio dei prodotti israeliani.
Segue una repressione spietata con coprifuoco, migliaia di arresti, uccisioni (2.000 morti, 100.000 feriti), demolizioni, sradicamento di alberi.
Nel 1993 si stabiliscono gli Accordi di pace di Oslo tra Arafat, Peres e Rabin.
Cosa prevedevano? Il processo di pace voluto dagli USA per stabilizzare il Medio Oriente (strategico per il petrolio), divideva i Territori Occupati (Cisgiordania e Gaza), in tre zone. Nei primi mesi tutte le città sarebbero state liberate (zona A), mentre nell’arco di 6 anni quasi tutto il territorio rimanente (zone B e C) sarebbe poi passato gradualmente ai palestinesi. L’accordo si fondava sulla convinzione che il rispetto e l’attuazione del processo di pace, avrebbe creato un clima di fiducia tra i due popoli con la possibilità alla fine di accordarsi sui problemi più spinosi: Territori Occupati, insediamenti abusivi dei coloni, status di Gerusalemme.
Che cosa avviene concretamente? Il processo di pace funziona solo i primi mesi: vengono liberate città come Gerico e Gaza, e Arafat può tornare in Palestina dopo 25 anni di esilio. Dopodiché il processo si interrompe, anche per l’assassinio di Rabin, nel 1995, da parte di un estremista ebreo.
Con il tracollo del processo di pace, le zone palestinesi autonome liberate, separate da strade e insediamenti israeliani, si trovano in una situazione economica disastrosa, con livelli molto alti di disoccupazione, il dilagare della corruzione e la crescita abnorme dell’apparato burocratico. Intanto gli insediamenti ebraici continuano a crescere: nel 2000 arrivano a 170 colonie con 200.000 coloni.
Nel 2000 si aprono i negoziati di Camp David: voluti dal Presidente degli Stati Uniti Clinton alla fine del suo mandato; sono un fallimento. I palestinesi non accettano un “piano di pace” che li obbligherebbe ad accettare condizioni inaccettabili, tutte a favore di Israele: divisione della Cisgiordania in tre regioni non collegate fra di loro (per far sì che i nuovi insediamenti rientrino in Israele), cioè uno Stato senza continuità territoriale; esclusione dalla città vecchia di Gerusalemme, con sovranità palestinese circoscritta alla Spianata delle Moschee, collegata con un tunnel sotterraneo al territorio arabo; rinunzia al ritorno dei profughi.
(Aldo Madia, continua)