
Gaza verso la tragedia, alle origini di ciò che sta accadendo
Un boato solleva un’enorme nuvola di fumo nero e in un attimo il Messhal Building e il suo centro culturale, che in questi anni ha ospitato anche una commemorazione per Vittorio Arrigoni e la rassegna cinematografica Nasra, si trasforma in un cumulo di macerie.
Non ci sono morti, solo qualche ferito, ma il mese scorso i missili sganciati da un caccia israeliano avevano sbriciolato il Katiba Building e ucciso due ragazzini che giocavano davanti all’edificio.
I morti però non sono mancati il 9 corrente mese: Enas Khammasch, 23 anni, e la figlioletta Bayan di 8 mesi sono state uccise prima dell’alba da un bombardamento israeliano nella loro casa a Jafarawi.
La distruzione del Messhal Buiding è stato un segnale preciso delle intenzioni del governo Netanyahu e dei comandi militari israeliani di andare all’escalation, annunciata da oltre 150 raid aerei tra la notte di mercoledì 8 e quella di giovedì 9.
Di fatto, nonostante gli appelli lanciati dall’ONU e l’iniziale disponibilità di Hamas, la guerra continua.
In merito, il movimento islamico la stessa sera del 9 aprile accusa Israele di voler sabotare i colloqui in corso, mediati da Onu ed Egitto, per arrivare alla tregua.
In realtà se i lanci di razzi e i colpi di mortaio palestinesi si sono fatti meno intensi nel corso della giornata, non sono mai cessati del tutto: circa 200 in meno di 24 ore che tengono nei rifugi migliaia di israeliani, provocano danni a Sderot e il ferimento di 26 persone.
Inoltre, nel pomeriggio dello stesso giorno, nella spirale di attacchi e rappresaglie, il braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin al Qassam, sparano un razzo Grad con una gittata di 40 km per la prima volta dal 2014 contro la città di Bersheeva, dove è caduto senza fare danni.
Il governo Netanyahu ha quindi ordinato alle forze armate di intensificare gli attacchi aerei e di inviare mezzi corazzati verso Gaza. Sono state installate batterie anti-razzo Iron Dome nel centro di Israele e avviato le misure per l’accoglienza di sfollati dai centro abitanti a ridosso di Gaza.
Il sindaco di Sderot, Alon Davidi, invoca un attacco immediato: ”Occorre riportare la calma nella zona e solo un’operazione militare riuscirà a ottenere questo risultato” dice Davidi. Per la guerra si schiera l’ex generale Uzi Dayan: “Spero in una operazione a Gaza, è qualcosa che deve essere fatta perché la nostra deterrenza è stata erosa. Il cessate il fuoco non basta”.
Un bagno di sangue è dietro l’angolo e il mondo resta indifferente riguardo ai motivi che stanno portando al nuovo conflitto.
Due milioni di palestinesi vivono senza libertà sotto un rigido blocco israeliano cominciato dopo la cattura del soldato Gilad Shalit nel 2006 e che si è intensificato l’anno dopo quando Hamas ha preso il potere a Gaza. Dodici lunghi anni in cui questo fazzoletto di meno di 400 km di territorio palestinese ha subito tre grandi offensive militari israeliane e ha visto il progressivo peggioramento delle condizioni di vita della popolazione e dei servizi essenziali come la sanità. Senza dimenticare la ridotta distribuzione di energia elettrica e la mancanza di acqua potabile. Due giorni fa, l’ONU, attraverso il suo rappresentante locale per gli affari umanitari, rivolge un appello a Israele affinché faccia entrare il carburante, fondamentale per il funzionamento dei generatori degli ospedali e di altri servizi essenziali per la popolazione.
Ahmad Tibi, vice presidente della Knesset, membro della lista Araba unita dichiara che i palestinesi cittadini d’Israele sono sempre stati trattati come migranti sebbene vivevano su questa terra da secoli, prima della creazione di Israele.
‘Mentre veniamo sottoposti a una discriminazione internazionale, Israele ha sempre tentato di salvare le apparenze ripetendo come un mantra di essere “la sola democrazia in Medio Oriente”. Ma è la democrazia per gli ebrei: una teocrazia che ha spinto per la creazione di un unico Stato con due sistemi separati. Uno per la popolazione privilegiata, gli ebrei, e una per le persone di seconda classe, arabi palestinesi, cristiani e musulmani’.
Approvando la nuove legge dello Stato nazionale ebraico Israele è ufficialmente divenuto un regime di apartheid, basato sulla supremazia ebraica. Anche in assenza di questa legge, che riconosce pieni diritti politici e nazionali solo alla popolazione ebraica, esistono già oltre 50 leggi in Israele che discriminano i cittadini non ebrei.
Ma il significato di questa legge è che oltre l’immediata discriminazione che i palestinesi cittadini di Israele subiscono nell’accesso ai servizi punta a consolidare il programma politico israeliano di sotterrare la soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, rende impossibile la convivenza di due Stati indipendenti, uno accanto all’altro, in pace e sicurezza che la comunità internazionale, e l’Europa in particolare, hanno promosso.
Il governo israeliano si è sentito tranquillo nel promuovere la legge perché ha dietro di sé l’amministrazione Trump. I “tre moschettieri sionisti”, ovvero il team per il Medio Oriente del presidente Trump, Greeblatt, Kushner e Friedman, condividono la stessa ideologia radicale sionista dell’attuale governo israeliano, non guardano ai palestinesi come degli uguali e non sono nemmeno capaci di pronunziare termini come “diritti palestinesi” o “Stato Palestinese”
Accanto alla posizione USA, l’Unione Europea ha rassicurato Israele in varie occasioni che non avrebbe imposto sanzioni per le sue sistematiche violazione del diritto internazionale e delle Risoluzioni ONU, rafforzando la cultura dell’impunità d’Israele. L’ambasciatore delle UE a Tel Aviv insiste spesso nel ripetere che l’Unione Europea e Israele “condividono i valori della democrazia, dello Stato del diritto e del rispetto dei diritti umani”. Ma adesso l’UE ha la responsabilità di agire sulla base dei suoi stessi principi. L’accordo di associazione USA-Israele prevede all’articolo 2 che “le relazioni fra le parti, devono essere basate sul rispetto per i diritti umani e i principi democratici, che guidano la politica interna e internazionale e costituiscono un elemento essenziale dell’Accordo”.
La legge sulla nazionalità ebraica pone tutti i palestinesi che vivono nella terra storica di Palestina, siano cristiani, drusi o musulmani, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, dalla Galilea al deserto del Negev, sotto il controllo di una Stato che per legge nega loro il diritto dell’autodeterminazione.
I palestinesi rappresentano il 50% della popolazione totale sotto il controllo israeliano, sia in Israele che nei Territori Occupati. La UE intende accettare questa realtà di apartheid come parte di quei cosiddetti “valori comuni” con Israele?
Può un qualsiasi rappresentante europeo riferirsi a tale situazione come a quella dei “principi democratici” a cui l’Accordo di associazione è condizionato?
I sostenitori di Israele, noti come “hasbaristi”, insisteranno sul fatto che alcuni cittadini palestinesi sono membri della Knesset (parlamento ) israeliano, dunque Israele resta una democrazia. Ma la legge sulla nazionalità non menziona mai questa parola. Ciò che conta è che quella democrazia va al di là delle nostra presenza in Parlamento e che Israele non può dunque più definirsi tale.
Una proposta di legge che ogni anno proponga sull’eguale allocazione di terre a tutti i cittadini è sempre respinta dal governo israeliano.
L’etnocrazia israeliana, questo “ufficializzato” regime di apartheid, non cambierà finché non pagherà il prezzo del suo razzismo, della sua arroganza e delle sua sistematica violazione del diritto internazionale.
Le nazioni europee hanno di fronte una scelta: o continuare a incoraggiare il razzismo israeliano e i suoi crimini ignorando la realtà, o agire per salvare la prospettiva di una pace giusta e duratura che salvaguardi i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, cristiani, drusi, musulmani ed ebrei. Come primo partner commerciale israeliano, l’Europa ha abbastanza strumenti per fermare questa follia estremista sionista incoraggiata dall’amministrazione Trump.
Noi rispettiamo la vostra storia e i vostri valori. Aspettiamo con ansia di vederli e sentirli.
(Aldo Madia, continua)