Molti pensano che il rebus coreano stia finalmente per risolversi grazie alle continue aperture di Kim Jong-un, e alla calorosa accoglienza ad esse riservata dal suo corrispettivo del Sud Moon Jae-in. In realtà, anche se la situazione nella penisola è migliorata, è lecito nutrire al riguardo dubbi più che corposi.
E’ chiaro, infatti, che in Corea è in atto un “grande gioco” tra Cina e Stati Uniti, per certi versi paragonabile a quello che vide impegnate, nell’800, Inghilterra e Russia zarista per assicurarsi il predominio nel Medio Oriente e in Asia centrale.
Per quanto riguarda la Cina, Xi Jinping ha fatto capire al mondo che la Corea del Nord è molto meno autonoma di quanto si credesse. E’ bastato infatti che Pechino minacciasse di tagliare una volta per tutte i ponti con Pyongyang per indurre Kim a più miti consigli. E non si tratta soltanto dello spettro nucleare.
La Repubblica Popolare è interessata alla stabilità dell’area per continuare il processo di espansione – anche militare – nel Mar Cinese Meridionale, e non vuole che vengano messi in pericolo i suoi grandi progetti strategici globali come la “nuova via della seta”. Né vede di buon occhio un’eccessiva presenza americana in Corea, che le minacce di Kim finiscono inevitabilmente per incoraggiare.
D’altro canto Donald Trump, che non ha esitato a dichiarare una vera e propria guerra commerciale alla Cina, non desidera un riavvicinamento troppo forte tra le due Coree. Al pari del gruppo dirigente di Pechino per quanto concerne il Nord, il tycoon vuole mantenere intatto il potere statunitense a Seul, e ciò spiega la perplessità americana circa l’entusiasmo di Moon Jae-in per le ultime mosse di Kim.
Siamo insomma in presenza del classico contrasto tra due grandi potenze (o “imperi”) per delimitare le rispettive sfere d’influenza. Il giovane leader nordcoreano si è illuso di poter giocare su tutti i tavoli grazie alla minaccia di utilizzare l’arsenale atomico. Ma si è pure visto che l’autarchia assoluta predicata dallo “Juche”, la dottrina ultranazionalista elaborata dal fondatore Kim Il-sung, è più illusione che realtà.
La stranezza della situazione è ancor più accentuata da un problema davvero fondamentale. In apparenza Nord e Sud stanno progettando una collaborazione sempre più stretta tra i due Stati. Moon ha recentemente affermato che Kim è disposto a rinunciare all’arsenale nucleare in cambio di consistenti aiuti per lo sviluppo economico del suo Paese.
Ma, anche qui, i dubbi sono più che legittimi. Uno sviluppo economico di marca liberista come quello del Sud implica, necessariamente, grandi cambiamenti nell’ordinamento socio-politico del Nord. In altri termini, è impensabile che uno Stato governato per decenni da un’unica famiglia possa modificare d’un tratto la gestione della vita economica, politica e sociale. Contatti intensi sono destinati a mettere in pericolo il potere dei Kim (che, non dimentichiamolo, dura dal 1948: addirittura un anno prima della vittoria di Mao in Cina).
I coreani hanno ovviamente il diritto di sperare che la loro nazione ritrovi finalmente l’unità. Tuttavia resta il fatto che non si sbaglia notando che, per i Kim, l’arsenale atomico è una sorta di “assicurazione sulla vita”. Il suo smantellamento condurrebbe inevitabilmente alla loro caduta.
In questo scenario Pechino può giocare con pazienza le sue carte. Ai cinesi interessa avere uno Stato amico ai confini e, anche per loro, l’unificazione non è certo il massimo. Non è detto, tuttavia, che il futuro della famiglia Kim sia garantito. Meglio sarebbe, dal loro punto di vista, un partito comunista gestito collegialmente e non da una dinastia inamovibile.